C’è un’Italia che rinasce

(l’Unità, 15 agosto 2008) – Su la testa, in alto i cuori. È in arrivo una nuova primavera. Certo, il panorama sembra più fosco che mai. Un governo che farebbe un bel fagotto della Costituzione. Che sta già facendo polpette della giustizia. Una xenofobia diffusa, altro che italiani brava gente. Un’informazione sempre più inginocchiata. Un governo a luci rosse ma che fa dare una mano di vernice sui seni del Tiepolo. La profezia di Pasolini su scuola e tivù che si avvera. L’incultura che si fa istituzione. La sinistra a pezzi. Eccetera. Eppure l’orizzonte non è affatto catastrofico. Anzi, sostengo che in giro si sente un bel profumo di primavera. Che mentre siamo costretti a berci fino in fondo uno dei più amari calici della storia recente qualcosa di segno opposto si sta facendo largo nella nostra vita quotidiana. Qualcosa che non sta nelle stanze della politica e del Palazzo. Ma viene prima della politica e la prepara.

Eccone alcuni, di questi segni. Il cinema, anzitutto. La nuova stagione del cinema italiano. Cinema civile, impegnato. Le cui grandi stagioni hanno sempre accompagnato e preceduto le fasi della speranza. Dalla ricostruzione postbellica agli anni del primo centrosinistra, per arrivare al "Portaborse", che diede voce alla rivolta civile dei primi anni novanta. Si impongono registi e attori capaci di parlare insieme il linguaggio del cinema, del teatro e della tivù. Poi c’è l’esplosione di festival e rassegne culturali. Promossi da assessorati di grandi e piccoli comuni, da associazioni, da biblioteche. Sui temi più vari. In collaborazione con intellettuali nazionali e locali. Festival belli, intelligenti, spesso originali, sempre pieni di pubblico. Non c’è quasi più l’Italia delle sagre di paese e che puntava a riempire le piazze estive con la cantante di grido. C’è una capacità progettuale e inventiva diffusa e assolutamente inedita proprio nel paese che molti di noi ritengono culturalmente inabissato. E se i giornali non informano, si sta ormai strutturando una rete informativa e di opinione libera e incontrollabile, alla quale si rivolge una parte crescente di opinione pubblica. Minoritaria, è vero; ma come lo è, in fondo, quella che legge i giornali senza limitarsi ai titoli, allo sport e ai necrologi. Si parla solo del clamoroso caso del blog di Beppe Grillo. Ma in effetti si è formato un tessuto di siti e di blog che sono in grado, da soli, di promuovere manifestazioni a una velocità superiore a quella di un grande partito. Una vivacità comunicativa straordinaria. Buona non solo per pedofili o bulli scolastici, come sembrerebbe dalle cronache, ma occasione di crescita civile e politica del paese. Anche la cultura della legalità non se la passa affatto male. Lo scorso marzo a Bari, per la giornata della memoria e dell’impegno di Libera, sono arrivate centomila persone da tutta Italia. Attenzione: centomila non "contro Bush" o "contro Berlusconi". O per difendere propri interessi economici. E neppure per l’emozione suscitata da un grande delitto. Mai successo prima.

Ancora? Provate ad arrivare in una città, in un paese. I vostri ospiti vi diranno subito sconsolati che "qui non c’è nessuno". Per spiegare che non ci sono risorse intellettuali, di impegno, in grado di dare speranza alla collettività. Tempo un giorno e avrete già conosciuto qualcuno di valore, che fa cose interessanti e importanti senza che la comunità circostante se ne accorga. E poi ne conoscerete un altro e un’altra ancora. E vi rivolgerete ai vostri primi ospiti per chieder loro conto della loro disillusione. Il fatto è che mentre la cronaca nera o giudiziaria o politica spennellano di nero il nostro cielo, una miriade di protagonisti della vita civile fa, progetta cose nuove, talora geniali, anche supplendo alle tragiche assenze o manchevolezze delle istituzioni. Nell’impresa, nella ricerca, nel volontariato, nella cultura, nella pubblica amministrazione. Il paese sta riscoprendo la scrittura. Il lungo ciclo del declino ha avuto origine, a pensarci, con l’eclisse della scrittura e con il simmetrico trionfo della società della voce e dell’immagine. Ma è la scrittura che, come ci insegnavano i nostri maestri elementari, ci obbliga a dare ordine ai nostri pensieri, a uscire (per quanto ne siamo capaci, ovviamente) dalla superficialità. Oggi stiamo ancora pagando l’immenso prezzo di quell’eclisse, ma grazie a internet la scrittura, la comunicazione scritta, perfino forbita e non banale (in quanto sottoposta a un pubblico vaglio), sta tornando a essere modo di esprimersi primario. Ne vedremo gli effetti benefici tra qualche anno.

Il paese però, direi soprattutto, sta riscoprendo le nascite. Non so che diranno le statistiche prossime venture, ma erano anni che non si vedevano tante donne incinte, tanti bambini. E non solo tra gli immigrati. Se ne vedono ovunque. Per le strade, sugli aerei, nei treni, nei ristoranti. Una volta, specie al nord, donne incinte e bambini erano specie rare. Ora non più. Il declino demografico è sempre anticipatore e sintomo di un inaridimento culturale. Mentre le nascite sono un segno di fiducia nel futuro, di un amore che contrasta il rancore sociale diffuso; quello -per intendersi- del dito medio alzato e delle impronte ai bambini.

Lo so bene. A chi mangia pane e politica, o a chi tutto misura in base a ciò che avviene nel mondo della politica, questi sembreranno segni irrilevanti e sommamente eterogenei. Eppure sono sempre di questa natura i segni che precedono i cambiamenti. Sia nelle democrazie sia sotto le dittature. Poteva mai immaginare la generazione del ’68, ascoltando l’Equipe o i Nomadi nel ’66, che due anni dopo sarebbe esploso qualcosa di grandioso che nasceva o si esprimeva anche attraverso i nuovi gusti musicali? Si poteva immaginare che il teatro di Havel o la musica rock dei paesi dell’est potessero preparare (dentro contesti internazionali anche loro inimmaginabili) il crollo indolore dei regimi di Praga o di Berlino est?

Conosco a questo punto l’ulteriore obiezione. Sarà anche come dici tu. Ma come si può, come possiamo noi tradurre tutto questo in qualità politica, visto lo stato in cui è ridotto il centrosinistra? Non lo vedi che deserto abbiamo intorno? E infatti. La città del centrosinistra è stata bombardata, dall’esterno e dal’interno. E sulle macerie regna il museo delle cere, tali non per anagrafe ma per anemia morale e culturale. Eppure sono proprio le città bombardate che si possono ricostruire. Quelle in piedi si possono solo ritoccare. A meno di realizzare imperiosi allargamenti, annettendo nuovi territori. Ma non è il caso del centrosinistra. Ora la città può essere rifatta. Lo spirito democratico c’è, aleggia. L’importante è che quando si manifesterà più compiutamente non trovi in attesa di interpretarlo (e di soffocarlo) il museo delle cere. Che non gli succeda cioè, per tornare all’esempio già citato, quel che toccò in sorte allo spirito della contestazione giovanile sessantottina, su cui saltarono le culture degli anni trenta e quaranta fino a stremarlo. O di trovare in attesa solo il populismo protestatario, come accadde in gran parte alla rivolta di Mani pulite.

La situazione è chiara. Elettoralmente il centrosinistra non è affatto devastato. Politicamente sì. E accertato che purtroppo è andata così, bisogna trarne ogni vantaggio. Perché infine il dilemma è se vogliamo costernarci e crogiolarci nella descrizione di un paese ignobile e che "non ci merita" o vogliamo riconoscere l’emergere sotto i rigori dell’inverno di un nuovo rinascimento e mettercene alla testa. Come diceva Seneca, nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

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