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Democrazia e civiltà: nasce il “fai da te”
(l’Unità, 31 agosto 2008) – Pare che le feste di partito non riescano più a infiammare. A dare un tono all’anno politico che inizia. Bisognerà farsene una ragione. A identità deboli corrisponde interesse debole. A interlocutori deboli, lo stesso. Non è la prova del nove del trionfo dell’indifferenza. Non è il prolungamento infido nella comunità politica, anche quella di sinistra, della foto che ci ha sconvolto: bagnanti immersi nel loro quieto sollazzo davanti ai poveri corpi di due bimbe rom. Esiste tuttora, e ha anzi una vitalità crescente, una larga comunità civile e culturale attenta e capace di riunirsi intorno a eventi di qualità. Non bisogna essere frate indovino per prevedere larghe affluenze di pubblico agli appuntamenti che la stagione ci apparecchia: il festival della mente a Sarzana, il cinema a Venezia, la letteratura a Mantova, per dirne alcuni. Di più: scommetterei su una forte presenza giovanile, ai primi di ottobre a Ferrara, al festival di “Internazionale”, il bellissimo settimanale che ci racconta il mondo con il meglio della stampa estera. (CONTINUA)
Il problema è che questa comunità civile e culturale, per nulla in ritirata ma anzi -ripeto- in crescita, si mobilita se riconosce a chi deve parlarle almeno una qualità di queste due: la competenza e il carisma. Si va per sapere, per capire, per vedere, a partire dal riconoscimento di un sapere specifico più alto del proprio, dalla possibilità di accrescerlo ascoltando; o anche incontrando un prodotto del talento artistico. Oppure si va perché si riconosce a chi parla un carisma conquistato sul campo, attraverso una vita impegnata e sofferta, guidando battaglie nelle quali si sono cimentate e magari formate identità collettive. Il carisma si riconosce ai condottieri. Non basta essere capi o portare lo zaino da maresciallo per averlo. No competenza, no party. No carisma, no party.
Si sono afflosciati fra l’altro gli ultimi surrogati. La curiosità, sgominata dalle alluvioni di interviste e apparizioni televisive. E il fiato caldo del grande partito di massa, che non si vuole più. La politica mostra la sua crisi anche su questo piano. Offre agli elettori un prodotto più scadente. E se quando si va alle urne la concorrenza è comunque solo tra partiti, quando poi si tratta di scegliere i luoghi dove imparare e sapere, le minestre invece si moltiplicano. Sempre di più e di qualità sempre migliore. Non più solo appuntamenti costruiti sugli organigrammi e progettati con il bilancino della linea di partito (e mica per colpa degli organizzatori). Non più solo nel menù, nei panni della “meglio voce sull’argomento”, lo sconosciuto titolare di un incarico o il grande manovratore di tessere. Ma persone che il pubblico segue anche a distanza su Internet da anni, leader civili, testimoni, i grandi professori universitari o i grandi intellettuali che parlano dei temi che dovrebbero fare da ponte tra la politica e l’esistenza: le correnti di pensiero, la scrittura, le rappresentazioni del mondo, i diritti umani, l’ambiente; anche quei mali della politica di cui la politica discute protetta da uno spesso strato di naftalina. Una volta tutte queste straordinarie opportunità non c’erano. O meglio, non ce n’era quasi nessuna. Mentre invece ai festival di partito si trovavano i dirigenti della Resistenza o i fondatori della Repubblica, i leader di grandi lotte sindacali, gli intellettuali più scomodi (più scomodi, ripeto), i dirigenti sanguigni dei movimenti antimafia, amministratori di ferro e lungimiranti che, dalla loro città, preparavano orizzonti futuri per tutti; insomma, uomini che suscitavano passioni e incutevano rispetto al solo sentirli nominare, non anonimi comprimari di vincitori di congressi.
Nessun segno di una società che si ripiega su se stessa, dunque. Vorrei anzi trarre un piccolissimo esempio di vita quotidiana da una cena a cui ho partecipato due giorni fa. Con mio stupore ogni commensale, in modo del tutto informale, snocciolava uno o più progetti nuovi a cui si stava impegnando, ognuno a forte contenuto civile. In particolare un avvocato milanese (un avvocato; non un regista, un critico o un assessore) ha raccontato di stare lavorando a un progetto di festival del cinema in una località di mare. Non chiedeva come spillare soldi alle pubbliche casse. Chiedeva consigli su quale identità dargli. E a ogni identità proposta, veniva fuori che ormai c’è già o già sta nascendo un festival con quelle caratteristiche. Ecco, l ’opinione pubblica arranca solo se la identifichiamo, come spesso ci capita di fare, con alcune centinaia di persone dotate di una certa notorietà e che hanno accesso all’informazione. Ma scoppia di salute se la identifichiamo, come sarebbe più corretto, con quella minoranza di un paese che si informa, produce idee, esercita una capacità critica consapevole, costruisce il pensiero e dà una cifra al senso comune di un paese.
E qui, finalmente, viene il cuore della questione. Il paese vive un problema acuto. Epocale. Il suo più vero problema. E’ letteralmente saltato il grande manto di ipocrisia che lo aveva avvolto nel dopoguerra, tessuto e ritessuto da partiti che condividevano comunque i valori costituzionali; garantito dal funzionamento di un principio di autorità, in famiglia, a scuola e nella società; rafforzato dal fatto che avere lutti e tragedie alle spalle aveva reso tutti un po’ migliori, più umani. Certe cose non si potevano dire, certe cose non si potevano fare. Di più: certe cose non si potevano nemmeno pensare. Ecco, quel manto che obbligava tutti a certe forme di rispetto formale non c’è più. Quel grande denominatore comune si è spappolato. Anche di questo bisognerà farsi una ragione. Sicché oggi sul campo si trovano due Italie, i cui confini non coincidono rigorosamente (come pur ci piacerebbe) con destra e sinistra. Due grandi, mobili comunità che rappresentano valori opposti e che agiscono in un groviglio di polarità: egoismo-solidarietà, eguaglianza-privilegio, rendita-merito, educazione-villania (assai più denso di implicazioni di quanto si pensi), volgarità-cultura, libertà-monopolio (o autoritarismo), razzismo-fratellanza, anarchia-senso dello Stato. E altre ancora. Siamo alla vigilia di un conflitto etico-civile di cui abbiamo avuto fin qui solo le avvisaglie. E l’area che definirò per comodità “democratico-civile” si accinge a impegnarsi in questo conflitto autonomamente. Reagisce alla caccia ai vucumprà sulle spiagge, si indigna per il venditore abusivo messo nel portabagagli come un sacco di patate, organizza buona cultura, mette in rete i blog per l’informazione, insorge contro gli yatch e i motoscafi che arrivano a motore acceso fino alla battigia, vuol sapere tutto delle morti sul lavoro o su Bolzaneto, chiede gli scontrini fiscali, va ai dibattiti con gli autori proibiti dai festival di partito, organizza le manifestazioni contro le impronte ai bimbi rom, fa circolare idee e progetti, organizza gruppi d’acquisto, premia i film più impegnati. Partecipa, cioè, a questo conflitto epocale da sola. Difende da sola i livelli di civiltà. Senza potere contare sullo Stato, tanto più con questo governo. Senza avere un partito che la guidi nei tornanti più aspri. Eppure, se posso azzardare, il futuro del partito democratico sta proprio in quest’area, in questa larghissima comunità di cittadini. Loro (quanti hanno partecipato alle primarie?) faranno il partito democratico con i fatti, mentre altri penseranno di potere ingabbiare e rappresentare e “dirigere”. Senza competenze e senza carisma. E senz’anima. Ogni partito ha un senso dentro i tempi e i conflitti della storia. E questi sono i tempi, questi sono i conflitti. A non capirlo, si rischia di far la fine dei soprammobili d’epoca.
Nando
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