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Alternativi ma gioiosi. Nelle università non abita la violenza
(l’Unità, 28 ottobre 2008)
“Piantala, delinquente!”. E
giù uno scappellotto sul coppino. E’ una delle scene minori più gustose del
sublime Amarcord di Fellini. Il padre antifascista, sfiancato dai problemi
familiari e dalla sua condizione di osservato speciale del regime, scarica
l’ira del momento sull’innocente esuberanza del figlio. Sembra la metafora di
Silvio Berlusconi, che, stressato nella sua conduzione del governo da valanghe
di problemi inaspettati, inveisce agli studenti “colpevoli” di difendere la
scuola e l’università pubblica. Violenti, “delinquenti” appunto, meritevoli di
uno scappellotto in forma di invio della polizia nelle scuole. Facinorosi.
Forse, dicono i giornali del premier, perfino infiltrati dai brigatisti. In
ogni caso da pestare duramente, e in massa, secondo i pubblici suggerimenti di
Francesco Cossiga.
Eppure se c’è un movimento non
violento è proprio questo. Certo contesta. E in democrazia ci mancherebbe. Ma
nella sua prassi di queste settimane non stanno né le (celebri) vetrine rotte,
né le uova marce della Scala, né le autoriduzioni di gruppo nei cinema e nei
supermercati. Né tanto meno le famose “strutture di autodifesa”, passate come
salamandre dal ’68 fino alle tute bianche del 2001. Una gioiosità di massa,
invece, una fantasia scoppiettante che ha già prodotto la sua icona d’epoca, la
lezione in piazza. E’ un movimento gentile, naturalmente con le increspature
umorali tipiche delle situazioni dove nessuno comanda. Sit-in, cortei allegri,
irriverenza salace (più spiritosa di certe barzellette…), richiesta di lezioni
alternative, ricerca di un rapporto costruttivo con i docenti. Al fondo una
grande amarezza esistenziale per il proprio futuro. E la voglia di non farsi ricacciare
indietro.
Volete sapere come si è svolta
la lettura di un documento studentesco a Scienze Politiche a Milano durante il
consiglio di facoltà? Un piccolo gruppo di studenti è entrato silenziosamente
con uno striscione in mano. Con il permesso del preside uno di loro ha letto un
foglio. Dopo cinque minuti se ne sono andati, di nuovo in silenzio. Volete
sapere, ancora, come mi è arrivata la richiesta di tenere una lezione
all’aperto? Sulla posta elettronica. Testualmente così: “Vorremmo quindi proporLe
di tenere una lezione del Suo corso in collaborazione coi relativi gruppi di
lavoro”. “Le” e “Suo” in maiuscolo. Scritto circa alle tre di notte, che vuol
dire che ci credono.
Lo so, qualcuno li vorrebbe
con gli occhi arrossati d’odio e con i sampietrini in tasca. E forse ne
sfornerà qualche esemplare. Ma, a pensarci, chi contesta nelle sue radici
culturali una società infarcita di villania e di volgarità non può che essere
così: deciso e sorridente, combattivo e civile. Civile proprio perché alternativo.
Prima o poi doveva succedere.
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Generazione tradita
Europa, 22 ottobre 2008
Il sessantotto per loro è un pezzo d’antiquariato.
Pregevole per molti, insignificante o sospetto per altri, un incubo per chi è
stato afflitto in casa da parenti nostalgici di Villa Giulia o di via Festa del
Perdono. Ma fondamentalmente non gliene importa niente. I loro riferimenti
stanno più spesso in miti individuali. Molto Saviano in questo momento, e
giustamente. E anche Obama non scherza. E pure Gino Strada. Gli piace, e come
no, Travaglio. Insomma, chi fa qualcosa che cambi il mondo che esiste o che
sappia stare contro il potere. E anche se “no global” non si usa più, hanno
molto a cuore i temi di Genova G8.
Ma perché si stiano muovendo a centinaia di migliaia per
tutte le città d’Italia, perché manifestino, occupino, discutano della scuola e
dell’università e dei loro destini da settimane, questa è un’altra cosa, che
attiene di più alla loro condizione. Nessun confronto con il sessantotto, per
carità, anche perché il rischio è sempre quello di privilegiare e di portarsi a
braccetto i fantasmi del passato. Possiamo però dire che è giunto finalmente al
pettine il nodo che da anni tutti vedono e deprecano senza che diventi mai tema
di governo. Si parano davanti a noi i primi studenti nella storia che hanno la certezza
che il proprio futuro sarà molto più precario di quello dei genitori.
Vedono
quel che sta capitando ai propri fratelli maggiori, i quali questa sconvolgente
novità l’avevano appena fiutata, smorzata com’era dall’ esperienza del
benessere e dalle reti di protezione familiari. Sgomento per il futuro, studi
di cui non si intravede lo sbocco, lauree triennali e poi magistrali e poi
master, pezzi di formazione senza fine, percorsi astrusi e pensati non per loro
ma per elargire cattedre universitarie, lavori da pochi euro l’ora, la
percezione che bisognerà arrangiarsi a lungo. Che andranno avanti i più geniali
o quelli che stanno nel rosso dell’uovo, i figli del due per cento della
popolazione più ricco di soldi e relazioni. Oppure: che gli strumenti indispensabili
per scavarsi un piccolo alveo nel mondo che cambia, per non farsi superare dai
tempi, li troveranno fuori dalla scuola e dall’università, si tratti delle
conoscenze informatiche come delle lingue.
E’ su questa incertezza, o meglio su questa perfida
certezza, che piomba come un treno la riforma Gelmini. Il suo spirito prima del
suo testo. L’idea che occorra un surplus di autorità viene respinta non perché
questa generazione provi esattamente l’orticaria davanti a ogni richiamo
all’autorità. Ma perché sembra l’ultima cosa di cui si abbia bisogno per ridare
un senso allo studio. Perché si avverte come non mai l’esigenza di
riqualificare tutto: scuola, università, ricerca. Non si dice forse che l’unica
vera chance per competere sulla scena della globalizzazione, della concorrenza
di paesi un giorno ex coloniali o terzo mondo, è la qualità, il valore
intellettuale e tecnologico aggiunto? Ecco invece i tagli. Su una scuola che è
già allo stremo. Tagli alla cieca, a percentuali, anche a costo di aumentare le
difficoltà dei più deboli. La nuova generazione di studenti avverte d’istinto
che su questa strada sarà tradita. E non lo dice neanche confusamente. Non usa
frasi imbevute di ideologia, che ormai -fatte alcune penose eccezioni- non
ricorrono nemmeno nel lessico familiare dei suoi esponenti politicamente più
impegnati. La stessa opposizione ai progetti di privatizzazione, di
trasformazione delle università in fondazioni, non ha le motivazioni e i toni
del movimento della Pantera, che segnò i primi anni novanta. Non è
pregiudiziale o ideologica. Ma muove dalla concretezza, da quanto si è visto in
questi anni in ogni campo. Il privato che, ben diverso dai “nostri” che
giungono a cavallo, anziché salvare il pubblico ne succhia l’anima. Il privato
che reclama flessibilità per dare più lavoro ai giovani e poi dissemina la
società di nuovo e incontrollato sfruttamento.
Provate a mettere sul piatto di quello che accade il sette
in condotta (in sé non turpe), il grembiulino, i tagli, la ricetta del
passaggio al privato e ne ricaverete una sensazione mista di paura e di beffa.
Altro che sognare la fine dell’alienazione, altro che la piccola borghesia che
chiede l’università di massa. Altro che la cultura per tutti, nello Stato
sociale che si apre ai bisogni dei più deboli. Altro che la liberalizzazione
degli accessi. Senza sbocchi lavorativi, numeri chiusi ovunque, lo Stato che
comunica che la cultura è un costo insopportabile. Una generazione preme alle
porte della nostra cittadella adulta. E nelle sue varianti, sociali, culturali
e politiche, ci comunica il sentimento che l’accomuna: si sente ricacciata
indietro, mandata allo sbaraglio. Detto con altro linguaggio: non si sente
voluta bene. E scusate se è poco.
Nando
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