Il giardino di Ombre rosse

(l’Unità, 24 ottobre 2008) –

Si chiama «Ombre rosse» e sta in una stradina del centro storico di
Genova. Una trattoria piccola, con qualche coperto supplementare sul
giardinetto di fronte, dall’altra parte del vicolo. Ci sono arrivato per caso,
chiedendo se c’era posto e domandandomi che rapporto potessero mai avere i
proprietari con lo storico filmone di John Wayne.
Mi ha accolto una signora all’incirca della mia età. Che mi ha riconosciuto e
mi ha sorriso con dolcezza misteriosa. Per poi accompagnarmi con premura a un
tavolino nel giardinetto, dandomi del tu. Torno subito, ha detto.

Il tempo, per me, di leggere su un muro un avviso di questo tenore, scritto con
ogni evidenza da lei o da un suo collaboratore: «Questi giardini sono pubblici,
quindi la consumazione non è obbligatoria». Un miracolo, ho pensato,
nell’Italia delle appropriazioni abusive di suolo pubblico, nella Liguria dove
ogni metro di spiaggia è recintato. Mi sono incuriosito ancora di più.
Finché la signora si è riavvicinata e durante le ordinazioni mi ha detto: «Ho
conosciuto tuo padre». Me lo dicono in tanti, e dunque quasi automaticamente ho
chiesto come mai e dove. «Mi ha arrestato», mi ha risposto lei. Mi hanno
arrestato i suoi carabinieri, con l’accusa di stare con i terroristi, di essere
una di loro. Poi sono stata scagionata. Ne ho un ricordo bello, ha aggiunto.




Devo avere avuto uno o più moti di stupore, mentre andavo realizzando che
quell’insegna «Ombre rosse» non aveva probabilmente nulla a che fare con i
western. Sì, ha aggiunto. Lo ricordo così, tuo padre, perché si capiva che ci
credeva davvero nel suo Stato. Perché ci accorgemmo che era un personaggio di
qualità, di un altro livello. E perché ci rispettò. Ci rispettò… mi sono
ridetto mentalmente, quasi stordito. Ma perché, quando l’avete visto?, ho
chiesto. Ci volle vedere lui. Ma in quale occasione fu, all’epoca di via
Fracchia?, ho insistito rendendomi subito conto della banalità, visto che via
Fracchia fu solo un’irruzione con sparatoria. No, fu in una retata di universitari,
mi ha risposto lei. Quella con Fenzi?, ho azzardato, ricordando bene il ruolo
del professore genovese nelle bierre cittadine e le polemiche su una sua
assoluzione, che avevano tirato fuori a mio padre l’accusa contro
«l’ingiustizia che li assolve».
Sì, mi ha risposto lei, proprio quella. Aggiungendo con un sorriso: io sono la
moglie di Fenzi. Ho finto indifferenza, mentre gli occhi mi cadevano su un
altro piccolo cartello che dall’alto sembrava ammonire e confortare con
delicatezza gli avventori: «Questo è un luogo di conversazione e di buone
maniere».
Ci trattava con rispetto, ha ripreso lei, Isabella si chiama. Sembrava che lui
capisse che eravamo dei nemici, ma dotati di ideali.

È vero, ho pensato, lo diceva sempre di loro. Ma non ho potuto fare a meno di
chiedermi anche che cosa sia successo in questo Paese se tanti anni fa un
generale dei carabinieri trattava con rispetto quelli che volevano ucciderlo e
oggi gente innocente, colpevole di nulla, può essere picchiata e umiliata se
finisce nel posto o tra le divise sbagliate…
Mi sono trovato in imbarazzo, perché nasconderlo? La signora che mi accoglieva
era gentile, colta, amichevole. E anche la figlia più giovane che aiutava ai
tavoli era di rara educazione.

Ma come dimenticare quanto terribile sia stata la striscia di lutti lasciata
dal terrorismo? Ne ho conosciute di vittime. Sicché ho cercato di non
dimenticare nulla man mano che il nostro colloquio andava avanti. Sai, le ho
detto, io ho qualche imbarazzo a parlare con chi ha sostenuto il terrorismo.
Non perché non capisca le persone che ho davanti, i loro diritti, i loro
cambiamenti; ma per quelle mogli, quei figli, quei genitori. Io credo che non
li dobbiamo mai dimenticare. Le ho raccontato così della mia amicizia con Mario
Calabresi, di Galvaligi. Di mia madre morta di cuore sotto il terrorismo, di
mia sorella Simona minacciata e in fuga da Torino.
Vedi, le ho spiegato, non trovo giusto che la storia di quegli anni l’abbiano
scritta e raccontata soprattutto i terroristi. Be’, ha osservato lei, ma
avranno bene il diritto di parola. Certo, ho continuato, ma lo esercitano molto
meglio delle vittime.
La vedova di un appuntato sa raccontare a stento che cosa è successo a lei, che
storia d’Italia può mai raccontare… C’è stato un dislivello di possibilità, o
no?

Lei ha ascoltato con rispetto. «Sì, è giusto pensarci, soprattutto dopo che mi
hai ricordato queste cose», ha ammesso. Però, ha continuato, bisogna chiedersi
perché migliaia di giovani hanno fatto questa scelta dopo tutte quelle stragi,
dopo avere visto che il potere faceva uccidere gente inerme senza che nessuno
pagasse mai.
Lì, esattamente lì, ho incominciato a capire di essere davanti a una persona
diversa. Primo, si era commossa nel sentirsi ricordare i dolori altrui.
Secondo, non aveva detto che la scelta della lotta armata l’aveva fatta, come
sogliono dire i brigatisti e i loro cantori, «un’intera generazione». No, aveva
detto onestamente «migliaia di giovani». Certo, ha proseguito, poi abbiamo
capito che era una scelta sbagliata, che tuo padre era dalla parte giusta.

Ecco, e qui per me è cambiato tutto. Non per il riferimento diretto a mio
padre. Ma perché era spuntato il discrimine. Quante «notti della Repubblica»,
quante interviste, quanti libri, ci siamo visti e letti in questi decenni, in
cui ex terroristi spiegavano che il loro errore era di non avere capito bene la
fase politica, di avere erroneamente immaginato di avere dietro la classe
operaia, senza che mai venissero pronunciate chiare parole di dolore per le
vittime o sulle ragioni alte e insuperabili della democrazia?

Tuo padre era dalla parte giusta, aveva ragione lui. Detto proprio da chi un
minuto prima mi aveva ricordato le stragi di Stato impunite. In quell’attimo ho
pensato che questo è l’unico modo di chiudere gli anni di piombo. Sul serio, in
profondità. Il dolore per chi è caduto, il riconoscimento delle ragioni dello
Stato, senza per questo dimenticarne le brutture più ignobili. Ho scoperto in
questa scelta di campo una dignità superiore. Senza chiasso.
Quella di un lavoro silenzioso e orgoglioso, nessuna predica, la voglia di
partecipare alla costruzione del bene collettivo. Quel giardinetto pubblico
realizzato da lei, tirandolo fuori – come un coniglio dal cilindro – dai
detriti e dai rifiuti.

Verso la fine della serata è venuto a salutarmi il marito, Enrico Fenzi, il
docente di lettere poi condannato a non ricordo quanti anni di carcere. Passato
lì inusualmente a dare una mano, con il grembiule blu del locale addosso.
Bianco di capelli, sorridente anche lui, con un ritegno assai marcato, un
pudore gentile, dandomi del lei. Pochi minuti soltanto. Me ne sono andato
pensando a quegli anni feroci, alla forza micidiale delle ideologie. A come
potevano sposare la lotta armata anche persone così, che mettono al mondo figli
dolci e impegnati nel volontariato. A com’era l’Italia quando degli arrestati
per terrorismo sentivano il rispetto del loro nemico numero uno.

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