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L’epoca post-razziale
(Europa, 7 novembre 2008) – “Ehi Obama, l’hai preso il caffè?”. “Obama”, ridendo, ha
risposto di sì. Ieri mattina al Porto antico di Genova, una delle zone più
multietniche d’Italia, Obama era già diventato il soprannome di tutti i giovanotti
di colore. Come al solito, il popolo ha interpretato con una profondità tutta
sua il grande cambiamento venuto da oltreoceano. In quell’appellativo sbucato
come un fungo dalla lunga notte elettorale c’era la percezione di un mondo rivoltato.
Obama per dire che l’operaio, il venditore, il barista di colore è come il
presidente degli Stati Uniti e che il presidente degli Stati Uniti è, in fondo,
come lui. Di più al popolo non si potrebbe chiedere. Perciò sarebbe delittuoso
se la politica, l’intellettualità, i media, le nervature civili del paese, non
traessero – a loro volta – tutte le conseguenze dal cambiamento che è avvenuto.
Che è materia da libri, anzi, da bigini di storia. A dispetto di chi si affanna
a ripetere che il nuovo presidente non potrà che governare come la destra, e che
la crisi economica mica lascia spazio alle utopie.
D’ora in poi occorrerà interrogarsi in modo sempre più
stringente su tante cose. E su tante lezioni. La prima è che è diventato
presidente degli Stati Uniti un uomo i cui antenati sono arrivati in quella
terra in catene. Dopo secoli di schiavitù e di “riscatti” (il libero accesso
alle università, il generale o il campione olimpico di colore…), si è
realizzata una delle più grandi rivoluzioni concepibili da società umana. Per
vie democratiche e pacifiche, senza ricorrere alla violenza come “levatrice” di
progresso. La seconda lezione è che il cammino verso l’uguaglianza è scritto
nella Storia. La quale è sempre pronta a fare i salti indietro, a gelare le
speranze e a riempirsi le tasche di delitti. Ma alla fine compie il suo
cammino. Davvero qualcuno, di fronte alla grandiosità di quanto è successo
negli Stati Uniti, può ancora illudersi nel nostro paese di umiliare o
discriminare le minoranze etniche, di negare loro il diritto di voto, di
espellerle dal perimetro dei diritti civili? Certo, c’è chi potrebbe impazzire
alla sola idea di un Berlusconi disarcionato da un senegalese di cittadinanza
italiana; ma se davvero l’America è per la democrazia occidentale -come sempre
si è detto- “faro di civiltà”, è difficile immaginare che quanto è accaduto sia
frutto di una allucinazione collettiva, di una grande e folle corsa di popolo a
disfarsi della propria identità nazionale. La terza lezione è che cambiare il
mondo, battersi per le cause più nobili, non significa perdere il contatto con
la realtà e con il senso comune. Obama, nel disegnare la sua America dei
diritti, non ha mai dimenticato né il bisogno di sicurezza né quello di
regolamentare i flussi migratori. Ce n’è abbastanza per sperare che una novità
di questa portata non venga digerita in pochi mesi dalla (capace) pancia del
trasformismo bipartisan.
P.S. Ad esempio (quarta lezione…), sarebbe mai salito alla
ribalta il candidato Obama senza primarie vere?
Con i metodi nostrani sarebbe venuta fuori Hillary. E sarebbe stata davvero un’altra
storia…
Nando
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