La tragedia di Rivoli. LA DIGNITA’ DIMENTICATA DELL’ORDINARIO


(l’Unità, 26 novembre 2008) – Straordinario. Provate a pensarci. E’ l’aggettivo più
straripante di questi anni. Una volta lo usavano solo i presentatori televisivi
per il loro ospite o il loro pubblico. Ora è tutto straordinario. Più nessuno è “solo” bravo, intelligente od
operoso. Più niente è “solo” funzionale, pulito, comodo. C’è ovunque un’ansia
di straordinarietà. Nelle parole, nei sogni, nelle promesse. Il paese che fa
impazzire ogni giorno su treni e tangenziali milioni di pendolari vuole – altrove –
opere straordinarie, sfide al futuro con cui si illude di nascondere le proprie
miserie.
L’Italia delle scuole e degli ospedali lugubri e fatiscenti promette
campus universitari o centri di eccellenza sanitari mirabolanti. I ministri che
si susseguono, invece di mettersi a fare gli onesti e saggi (e impagabili)
manutentori di macchine usurate o malriuscite vogliono passare alla storia per
avere fatto qualcosa di unico, di irripetibile.

Dietro la tragedia della scuola di Rivoli c’è questa sciagurata cultura della
straordinarietà. Che porta a considerare sprechi tutti i soldi investiti nella
manutenzione, nell’edilizia minore, nelle semplici dotazioni della vita
quotidiana. In ciò che “non si vede”. Che non produce nastri da tagliare né
folle in delirio. Ma che può rendere più sicura e piacevole la vita di chi
studia, di chi lavora o deve curarsi.
Da tempo imperversa (ma vuoi vedere che
c’entrano le tangenti?) l’ideologia delle grandi opere come misura ultima delle
qualità di uno statista. Come dire che il più virtuoso capofamiglia è colui che
porta moglie e figli a Cortina mentre piove dal soffitto o i lavandini puzzano
di fogna. Straordinario e ordinario, si intende, non sono sempre alternativi.
Il guaio è che in Italia lo sono diventati. Siamo il regno della magia e del
sogno. E ogni tanto ci svegliamo con gli incubi.

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