Moralità, ecco ciò che fa la differenza



(l’Unità, 22 dicembre 2008) – Uguali no, destra e sinistra non lo sono. Questo ha detto
la Direzione nazionale del Pd di venerdì scorso. Decine di interventi. Senza
che nessuno abbia abbozzato la teoria del complotto, esortato a porre un freno
allo “strapotere dei giudici”, o cercato applausi corrivi proponendo una riforma
della giustizia o delle intercettazioni. Al contrario è stato rivendicato al
partito un ruolo di controllo ancora più rigoroso di quello giudiziario,
ricordando la necessità di mettere al bando certi comportamenti anche quando
non costituiscano reato. Veltroni ha addirittura invocato una magistratura
interna deputata a garantire la moralità di candidati ed esponenti del partito,
iniziando (Marini) dalla sobrietà degli stili di vita. Almeno questo
ammettiamolo: in nessun congresso o assemblea del centrodestra si sarebbero
sentite  cose del genere. Uguali proprio
non siamo.


E però… E’ anche vero quel che ha detto Pierluigi
Castagnetti. E cioè che se qualcuno avesse sollevato la questione dei rapporti
tra etica e politica in Direzione due settimane fa sarebbe stato accolto come
un marziano. Perché c’è un abisso tra i buoni proponimenti di venerdì e i
comportamenti precedenti. Perché anche se Veltroni ha detto in campagna
elettorale di non volere i voti della mafia, l’ultima bussola che ha guidato la
formazione delle liste elettorali e degli incarichi interni di partito è stata
la questione morale. Così ha passato il vaglio qualche voltagabbana; ma soprattutto
si è costruito un Pd debole e infarcito di personaggi cresciuti o vissuti
“senza demerito”. Poco credibile verso gli elettori, poco autonomo verso i
potentati economici, poco autorevole verso i propri dirigenti. Benvenuti dunque
i felici propositi. Ma a garantire per la moralità di un partito valgono
soprattutto le storie personali dei suoi dirigenti. Lo si è capito?




Se il Pd non parla al cuore

(l’Unità, 17 dicembre 2008) – Giampaolo e Celeste, insegnanti casertani, sono gli ultimi
che ho incontrato. Hanno appena organizzato a Como una tre giorni sui diritti
umani. Centinaia di persone, molti giovani. Sono tutti e due di sinistra, ma
non vogliono più lavorare con i partiti. Anzi, la prossima volta non votano. Di
Pietro dice cose giuste, ma non è la nostra cultura. Come loro ne incontro
tutti i giorni. Da Como ad Agrigento. L’Abruzzo è l’immagine fedele di questa
Italia. Sfibrata, sfiduciata, disincantata. Stufa marcia dei partiti, che si è
sentita presa in giro dal Pd e dai suoi slogan fasulli, che ha visto consegnare
a Di Pietro la questione morale o della legalità, e si chiede con fastidio e
con rassegnazione perché mai dovrebbe votare o addirittura militare per
qualcuno.

La sinistra un giorno tutto
cuore, e forse troppo, ora si scopre scettica e senz’anima. Specchio, suo
malgrado, di un partito senz’anima,
ultimo approdo di un centrosinistra in disarmo morale e culturale. L’idea che “non
ne vale la pena” ha messo radici solo apparentemente fulminee; in realtà viene
dalle lacerazioni e dagli egoismi che hanno strozzato lentamente e per la
seconda volta il governo Prodi, dall’imbroglio delle “primarie sempre”, dalla
nausea per il partito delle tessere e delle troppe clientele, dall’irritazione
per la gestione giuliva delle candidature, dal rigetto per un ectoplasma zeppo
di primedonne senza seguito.

Giorgio Galli, il politologo inventore del
“Bipartitismo imperfetto”, l’aveva detto, cifre alla mano, subito dopo il voto
delle politiche: non è Berlusconi che ha vinto, è la sinistra che ha perso voti
nell’astensionismo. L’Abruzzo conferma e rilancia. Dà la misura di
un’esperienza politica, quella del Pd, incapace di parlare sia al cuore sia
alla testa della maggioranza del popolo di centrosinistra. Che esiste. Ma è in
cerca di autore.

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