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FOTO DI GRUPPO CON MACERIE
L’intervento di
Nando dalla Chiesa
sul nuovo libro
di Antonio Padellaro
Io gioco pulito
(Baldini Castoldi Dalai, 2009)
Sì, siamo messi male davvero, caro Antonio. Noi come
sinistra italiana, intendo. E invece vedo intorno a me una folla di persone
convinte che il disastro sia rimediabile a breve. Basta, reclamano, con il
partito liquido. Un bel congresso salvifico del Pd, magari, in cui si rimettano
le cose in ordine, come si fa in un partito “vero”. Quasi che non ci fossimo
abituati da anni a fare congressi di
partiti “veri” senza votare; ogni volta pronti a plebiscitare un candidato
unico e a formare i gruppi dirigenti approvando listoni di nomi “prendere o
lasciare”. Sproloqui di persone accozzate insieme bizantinamente nel solo
rispetto dei dosaggi di corrente, anch’essi
– fra l’altro – privi di qualsiasi verifica di consenso preventivo. Votazioni in
cui il massimo brivido di indisciplina e di ribellismo è rappresentato, agli
occhi di tutti e della propria coscienza, da un silenzioso cartellino di
astensione. Al congresso, al congresso, si grida dunque con lo stesso entusiasmo
in cui sotto le monarchie i borghesi liberali reclamavano lo Statuto. Solo che
nelle grida di oggi si nasconde l’ipocrisia di chi rabbonisce i dissensi e le
critiche promettendo e forse promettendosi un congresso “vero”, con le tesi
contrapposte, e un confronto approfondito, ci mancherebbe altro, sapendo che
non ci sarà. E che una volta di più calerà su centinaia di migliaia di iscritti
un accordo preconfezionato tra leader massimi di cui ormai si ignora il vero
consenso elettorale, come la vicenda delle ultime amministrative romane ha
tragicamente dimostrato.
senz’altro uno dei problemi più acuti) è che alla testa del partito democratico si sono insediate persone
che hanno in fastidio la democrazia.
Non amano le possibilità di scelta che si accompagnano alla parola democrazia,
questa parola fulgida e bellissima che da decenni mette in luce le miserie
culturali di intere classi dirigenti, sempre spaventate di lei, della sua
forza, delle sue domande esigenti; e che l’hanno difesa sul serio solo quando,
sotto l’offensiva del terrorismo, la democrazia aveva finito per coincidere con
il sistema dei partiti, ossia con loro. (continua)
Mi sono sempre chiesto, ad esempio,
quale demone mentale abbia spinto tutte, e dico tutte le componenti del nascente del Partito democratico a dar vita
all’assemblea costituente attraverso un sistema elettivo che sembrava figlio
della tante volte esecrata “porcata di Calderoli”; perché cioè si sia deciso di
votare su liste bloccate senza dare possibilità di scelta a milioni di
elettori. Che cosa ostasse a dar corso all’ operazione politica più elementare
e più conforme a un partito che pone al centro della sua identità la
democrazia. Non la giustizia sociale, non la patria, non l’Europa. Ma la
democrazia. Mi sono anche domandato tante volte quale visione sciagurata di
partito avesse portato tutte, e di nuovo sottolineo il “tutte”, le componenti
del nuovo partito a immaginare un’assemblea costituente di quasi tremila
persone. Ossia il nulla, per quanto gradevole e suggestivo sia stato vedere finalmente
in un luogo rappresentativo della politica tante donne e tanti giovani. Perché
tremila persone non sono un’assemblea che decide. Sono una platea che ratifica,
sono un pubblico da Telegatto, un gioioso sfondo di plaudenti in grado di dare
grandiosità estetica a una ripresa televisiva. Non ci voleva molto a saperlo.
Anche chi vi era arrivato fiducioso nel nuovo partito ha subito capito di
essere “pubblico”. Non per nulla la platea si è già dimezzata. E chi se ne è
andato non parteciperà al congresso. Anche se sarà un congresso “vero”.
Che mortificazione fu in quella prima assemblea
costituente celebrata a Milano (bisognava sfondare al Nord, vero?) vedere elencati a passo di carica, mentre i
costituenti già erano andati o stavano andando a prendere i treni, i componenti
delle varie commissioni. Centinaia di nomi annunciati in successione, senza che
nessuno li avesse votati, senza che nemmeno i diretti interessati lo sapessero.
Centinaia di nomi, quasi tutti noti e di esperienza, che alla fine non sarebbero
stati ascoltati, nemmeno nelle loro indicazioni più generali. Fu come tirar giù
la maschera e dire: signori, ecco a voi il nuovo Partito. In quel momento il
partito democratico era già morto. Almeno quello che avevamo immaginato in
tanti. Non pensando di mettere insieme le “grandi tradizioni politiche” del
paese, queste grandi tradizioni alle quali stiamo pagando da decenni un
pedaggio insopportabile. Ma pensando che ci si sarebbe potuti accingere a
trasfondere in una avanzata idea di democrazia una pluralità direi infinita di
culture, di biografie, di esperienze, di domande di senso. Così era stato fatto
credere che sarebbe stato. Mentre la cuoca preparava in cucina un mirabile menù
a due portate: ex popolari ed ex comunisti. Il resto contorno; meglio se molto,
molto leggero.
Sembrava di assistere al suicidio progressivo di un progetto.
E come non bastasse, procedeva
inesorabilmente un altro suicidio: quello del governo Prodi. Lo strumento più
grande che avevamo a disposizione per fare capire agli italiani di che pasta
fossimo fatti, quale cultura potessimo e sapessimo mettere in campo per
governarli. Una prova fallimentare. Non per la saggezza di Prodi. E nemmeno per
le cose buone fatte, che furono molte. Ma per la sensazione di lontananza dai
bisogni popolari e dagli interessi del paese che riuscimmo a dare. Per
l’incapacità di sembrare positivamente diversi. A partire dalla bulimia di
posti, dalla mediocrità e dall’astuzia levantina che trasparivano dai
personaggi, dalle dichiarazioni a raffica, dalle guerre intestine dei
comunicati e delle interviste. Un colpo a destra, un colpo a sinistra,
un’ambizione di qua, un’ambizione di là, cadde il governo, benché da sempre
sapessimo che se avessimo anche con il mignolo sinistro contribuito a farlo
cadere ci saremmo resi responsabili di restituire il paese a Berlusconi.
Veltroni pensò, o qualcuno gli fece pensare, che con qualche operazione
estetica (berlusconiana, starei per dire) avrebbe potuto indovinare il colpo di
reni vincente. Non gli ho mai rimproverato, devo dire la verità, di avere
scelto di andare solo noi con Di Pietro alle elezioni. Sono sempre stato un
fautore delle grandi alleanze, ma con quello che offriva il convento era
davvero difficile praticarle. Assurdo immaginare di riproporci agli elettori
tutti insieme appassionatamente senza suscitare in loro una sensazione di
nausea. Ma questo avrebbe dovuto obbligare a un di più di serietà e di
affidabilità, di forza attrattiva proprio verso l’elettorato di sinistra. E
invece il suicidio fu presto completato. Le liste elettorali di Bettini e
Franceschini, presentate alla fine in pubblico con tanta giuliva soddisfazione,
furono un altro colpo durissimo per l’immagine del partito che stava nascendo.
Sai bene che questo è per me un capitolo amaro, benché ormai abbondantemente
superato sul piano delle gratificazioni civili e intellettuali. Ma penso di
essere oggettivo se dico che il partito venne trattato alla stregua di un
rotocalco o di un album delle figurine. Senza relazione con il progetto da
costruire, senza relazione con il prestigio e con i patrimoni di consenso
personali, fu una corsa forsennata (e un po’ demenziale) a potere esibire
generali, industriali, figli di industriali, magistrati, scrittori, scienziati.
E tanti giovani, si annunciava con sussiego; ovvero sconosciuti che
personalmente non avrebbero preso cento voti, ma a cui le liste bloccate
garantivano l’ elezione. Non giovani capaci di esprimere il mondo dei ventenni
o dei trentenni, non leader o esponenti di movimenti (le occupazioni delle
accademie di belle arti o le cooperative sui beni confiscati alla mafia), ma
parenti o segretari o portaborse dei dirigenti. Erano loro il “rinnovamento”.
Ne venne fuori una creatura centauro: metà crocchio di correnti, metà album di
figurine. Metà muffa metà niente. Almeno così la giudicò l’elettorato se è vero
che -secondo ormai tutti gli studiosi- le elezioni sancirono, più che la
vittoria di Berlusconi, la disfatta della sinistra. Il resto è andato come
doveva andare, con Veltroni che ha pagato più di quanto dovesse, ma che
purtroppo ha regalato a tutti, dopo la sconfitta in Sardegna, quella fuga
davanti alla assemblea dei “suoi” militanti che difficilmente potrà essere
dimenticata. Anch’essa segno della qualità del partito.
E il resto?, dirai forse tu. Già, il resto. Devo forse
soffermarmi sulla inconsistenza e sui narcisismi inarrivabili della cosiddetta
sinistra radicale? Convinta di non avere raggiunto il fatidico 4 per cento per
colpa di Veltroni, quando le è arrivato addosso come una mazzata (inaspettata)
il giudizio degli elettori? Questa sinistra così simile a quei socialisti
convinti di avere perso nel ’92 per colpa dei pubblici ministeri milanesi?
Leggo che nel suo ultimo libro-intervista Fausto Bertinotti ha fatto una
radicale autocritica, parlando di una “casta di sinistra”. Be’, bastava avere
gli occhi un po’ aperti e quella casta la si sarebbe potuta vedere già uno o
due anni fa. O addirittura, mi voglio rovinare, anche nel ’98, quando il primo
governo Prodi venne fatto cadere, subito dopo il successo dell’euro,
sull’altare delle 35 ore. Ridetto ora sembra una barzelletta. E invece fu
storia vera.
Non hai speranze?, mi chiederai. Sarò schietto per come mi
conosci, Antonio. La situazione è davvero critica, e non se ne uscirà
facilmente. Ci vuole un leader, ci vuole un leader vero, ripetono in tanti.
Troviamo il nostro Obama. Già sentito cento volte nel ’94, dopo il primo
trionfo di Berlusconi. Un leader come lui ci vuole, si diceva. Poi abbiamo
vinto due volte con il candidato più lontano possibile dai modi e dal carisma
televisivo di Berlusconi. Siamo dipendenti anche in questo. E in fondo Veltroni
è stato dipendente in questo a sua volta. Quanto a Obama, per trovarne uno
occorrerebbe anzitutto che le primarie e ogni genere di elezioni non fossero
truccate, che fossero libere veramente. Io sono convinto che la democrazia
italiana, per quanto ammaccata, abbia molte risorse al suo interno. Che il
nostro linguaggio, depurato di ogni ideologia, possa ancora parlare ai
cittadini comuni, possa ancora fare scattare emozioni e domande e speranze. Ma
bisogna che questi cittadini comuni ci sentano vicini a loro, specie nei loro
problemi più quotidiani, dai servizi sociali fino al fisco e alla sicurezza,
ossia le due questioni su cui abbiamo buttato via milioni di voti gratis. Vuoi
perché nelle correnti di partito o tra professionisti della politica i problemi
di chi -imprenditore, artigiano, commerciante o professionista- fa i conti con
le assurdità e le vessazioni del fisco proprio non trovano posto. Vuoi perché
se comanda l’ideologia (starei per dire “le grandi tradizioni”…) quello della
sicurezza viene trattato sprezzantemente come un “tema della destra” (ricordo
ancora quando dieci anni fa andai, unico esponente cittadino della sinistra, a
una manifestazione contro gli spacciatori a Baggio, periferia di Milano, e
venni accolto da un gruppo di cittadini che mi dissero testualmente “grazie per
non averci costretto ad andare dietro i fascisti”). C’è un’intelligenza diffusa
e viva della sinistra, voglio dire, anche se ormai in sofferenza e in
diffidenza. Ma a questo magma, che ancora è la fonte di energia per tanta
democrazia italiana, deve essere offerto altro; e solo “altro” può ricomporlo, riportarlo
allo stato politico solido, dargli identità e orgoglio.
Da tempo mi sono convinto che la sinistra italiana, anche
nella sua variante allargata di centrosinistra, abbia, nel ’92-’93, solo differito la propria fine. Sotto le
macerie di tangentopoli caddero infatti, questo è vero, i gruppi più corrotti;
ma a essere chiamata in causa fu un’intera idea di politica, il recinto
culturale e morale in cui quei gruppi avevano potuto crescere, nonostante la
denuncia di Berlinguer. Craxi fu più arrogante di altri, non di tutti, e fu il
simbolo di quella cittadella-Stato che affondava in crisi di consensi. Certo fu
un paradosso della storia che le macerie del Muro non ricadessero prima di
tutto sull’ex Pci. Il fatto è che esse si sommarono alle altre, di macerie,
quelle di Tangentopoli; sicché chi stava all’opposizione ne uscì meno peggio e
per giunta senza più addosso il ricatto della guerra fredda. L’iniezione di
democrazia portata dalle elezioni dirette dei sindaci consentì di mettere le
persone davanti ai partiti, dando nuovo e insperato slancio, nelle città, al
centrosinistra. Venne l’invenzione felice dell’Ulivo a dare benzina a quel
pezzo di prima Repubblica sopravvissuto a se stesso. E nel ’96 fu vittoria. Fortunosa
comunque, visto che la Lega aveva giocato in proprio. Ma quei partiti, con i
loro leader inamovibili, anziché essere grati all’Ulivo iniziarono a lavorare
per indebolirlo, ripescandolo ogni volta dal loro sgabuzzino mentale solo in
vista delle prove elettorali. Perdemmo poi nel 2001, dividendoci per tre, con
un numero di voti complessivamente superiore a quelli del centrodestra. E di
nuovo nessuno pagò. Mentre i partiti erano ancora storditi dalla sconfitta, il
centrosinistra all’opposizione ricevette una spinta formidabile dai girotondi,
che, anche con l’aiuto dell’ “Unità” tua e di Furio, misero ulteriore benzina
nel suo serbatoio, almeno quanto bastò a vincere in serie tutte le elezioni dal
2002 al 2006. Ma, esattamente come era stato rinnegato l’Ulivo, così vennero
rinnegati anche i movimenti civili. La politica come monopolio, e la cuoca
sempre lì a preparare il suo ossessivo menù a due portate, ex comunisti ed ex
popolari. Con i loro giovani assistenti, per garantire l’eternità della specie.
Ora la fine che già il ’92 avrebbe dovuto dichiarare è
arrivata. Quella foto di gruppo che ancora si agita promettendo nuove “sfide
affascinanti”, controllando e contendendo tessere, cercando posti, tentando
disperatamente di far da tappo a ogni domanda di cambiamento, è finita. La foto
di gruppo. Sì, è questo il concetto che meglio sintetizza i problemi di cultura
e di progetto, di qualità e di umanità, di affidabilità e di prestigio. Non
Obama, ma la foto di gruppo. Che va cambiata senza fretta, con la pazienza dei
rivoluzionari, anche se lavorando assiduamente e senza stancarsi nella giusta
direzione. I miracoli, caro Antonio, non li fa nessuno (oddio, in verità
abbiamo chi li sa fare, ma in negativo…). Forse la storia accelererà però qualche
processo. Anche vertiginosamente. E’ possibile, è successo più volte, anche di
recente. E allora un largo gruppo di persone senza schizzi di fango addosso e
con l’energia necessaria dovrà farsi trovare pronta all’appuntamento. E a
gettarsi nella mischia. Senza regalare più né idee né fatica né benzina a chi
ha dimostrato troppe volte di non meritarle. Ti saluto con amicizia, e grazie
di tutto,
Nando
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