Il ragioniere che sparava come un dio


(Tratto da L’Indice dei libri del mese di aprile) – Bernardo Provenzano. Che cosa rappresenta davvero questo
padrino corleonese nella storia della mafia e (purtroppo) nella storia
d’Italia? C’è molto di simbolico nella sua parabola. A partire dal giorno in
cui venne arrestato, l’11 aprile del 2006, il mattino dopo le più contestate elezioni
politiche della Repubblica. Quando il paese non aveva più un governo nel pieno
dei suoi poteri e non aveva ancora quello nuovo. Come se solo in una vacanza
della politica il boss inafferrabile potesse essere catturato. O come se gli
astri avessero congiurato perché le forze dell’ordine non regalassero il trofeo
più ambito a nessuno schieramento politico. Quarant’anni erano passati, una
latitanza punteggiata di stragi fatte e decise, a partire da quella di viale
Lazio, nel ’69, che gli era valsa il soprannome di “u tratturi” per la ferocia
e la determinazione con cui aveva dimostrato di sapere spianare i suoi nemici.
In quei quarant’anni si erano spese molte sapienze mafiologiche per spiegare chi
fossero davvero i moderni capi mafiosi. Negli anni settanta per giurare sulla
fine di ogni stereotipo di mafioso contadino e sull’ingresso in scena di boss
“che vanno in Giulietta e usano il telex”. Negli anni novanta per insegnare
dottamente che i capi mafiosi ormai “usano il jet e il computer e parlano le
lingue”.

No, Provenzano, come anche Totò Riina, non parla le
lingue, anzi non parla nemmeno l’italiano. Non usa il computer ma la macchina
da scrivere (più modelli, cinque, di macchine da scrivere). E difficilmente
viaggia in jet, amando piuttosto rannicchiarsi nei fondaci e nelle campagne
siciliane o vivere la vita palermitana protetto dall’intrico di case e ville di
Bagheria. Non usa il computer ma messaggeri a mano di lettere cifrate e
sgrammaticate diventate celebri con il nome di “pizzini”. Dal giorno della sua
cattura sono usciti diversi libri con l’obiettivo di dipanarne del tutto o in
parte la parabola e di ricostruire, a partire da lui e dai suoi messaggi, la
storia recente e passata della mafia. Qui ne indicheremo fondamentalmente tre. (continua)



Anzitutto la lunga intervista di Francesco La Licata, giornalista della “Stampa”
e profondo conoscitore della vicenda mafiosa, a Pietro Grasso, procuratore
nazionale antimafia e già procuratore capo di Palermo, oltre che giudice a
latere al maxiprocesso del 1986-‘87. Intervista accompagnata da una prefazione
di Emanuele Macaluso e pubblicata da Feltrinelli nel 2007, un anno dopo la
cattura a Montagna dei Cavalli. E che sotto il titolo inutilmente commerciale Pizzini, veleni e cicoria, annuncia
analisi della massima serietà su La mafia
prima e dopo Provenzano
. Indicheremo poi in funzione complementare il libro
scritto da Salvo Palazzolo e Michele Prestipino. Giornalista della redazione
palermitana di “Repubblica” il primo, già coautore di una biografia del boss
corleonese, (Bernardo Provenzano. Il
ragioniere di Cosa Nostra
, edizioni Soveria Mannelli). Sostituto
procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Palermo il secondo. In
questo caso il titolo, pubblicato da Laterza, anch’esso nel 2007, annuncia ambizioni forse perfino troppo alte rispetto
a quelle realizzabili: Il codice
Provenzano.
A questi due libri, che vedono entrambi impegnati un
giornalista e un magistrato, se ne affianca uno di Andrea Camilleri,
rappresentazione argutamente folclorica
dell’universo del boss attraverso l’allestimento di un piccolo dizionario.
Titolo: Voi non sapete. Sottotitolo: Gli amici, i nemici, la mafia, il mondo nei
pizzini di Bernardo Provenzano
. Edito da Mondadori sempre nel 2007 e appena
rilanciato dalla stessa casa editrice nei Grandi Bestsellers.

Come si può vedere, in tutti e tre i libri si fa
riferimento, due volte direttamente una volta implicitamente, ai pizzini, alla
corrispondenza tenuta in forme maniacali e criptiche dall’anziano capomafia. La
fantasia pubblica d’altronde è rimasta profondamente impressionata proprio da
questi aspetti esteriori, ma intensamente rivelatori, della sua personalità.
Tanto più che quei bigliettini, secondo una mitologia affermatasi alla velocità
della luce, sono sembrati dischiudere mondi sconosciuti, aprire squarci su
realtà inimmaginate. In realtà quei pizzini consentono aggiustamenti di
prospettiva, aggiungono particolari, offrono fondamentali spunti investigativi
ma non sembrano modificare in modo sensibile l’idea che ci si era formata del
potere corleonese attraverso un’infinità di atti processuali e parlamentari. Tra
i quali, come ricordano Palazzolo e Prestipino, alcuni campioni degli stessi
“pizzini” finiti nelle mani della giustizia o grazie a brillanti operazioni di
polizia o grazie alla collaborazione di un “pentito” di rango come Nino
Giuffré. Tanto che la lunga, approfondita intervista di Pietro Grasso muove da
altro: soprattutto dal racconto della cattura presentandola per quel che fu,
ossia una vittoria dello Stato e non una concessione di Cosa Nostra. Per ripercorrere
poi con tranquilla, lucida intelligenza  la complessiva storia dei corleonesi che vanno all’assalto dello
Stato, demolendo l’immagine di un Provenzano “buonista” e dentro di sé ostile
alla strategia stragista e descrivendone invece con efficacia i costumi e
l’etica criminali. E spaziando sulle fatiche, gli eroismi, le incomprensioni
della lotta alla mafia, comprese quelle che si scatenano su Falcone
(incomprensioni che hanno purtroppo una coda proprio nel libro, dove torna a
fare capolino la spinosa polemica tra Grasso e Giancarlo Caselli). Grasso
traccia un orizzonte difficile, nel quale la zona grigia, la famosa zona grigia
tra società civile e mafia, si popola di politici, imprenditori, professionisti
e anche di esponenti delle istituzioni preposte al contrasto della criminalità.
Ma sa dare il giusto respiro storico ai successi ottenuti dallo Stato,
rifiutando l’eterno stereotipo che vorrebbe la mafia “più forte di prima”. E
disegna alcune ragioni di speranza, pur prevedendo (nel 2007…) che la
legislazione renderà in futuro più difficile la lotta alla mafia. Un taglio di
grande interesse, che in certi punti incrocia la parallela ricostruzione di Leoluca Orlando racconta la mafia (a
cura di Pippo Battaglia, Utet, 2007).

Il
codice Provenzano, come detto, diventa un’utile lettura soprattutto
se poggiata sulla ricostruzione di Grasso e La Licata. Molto “giocato” in
copertina sulle tipiche dimensioni analitiche del mistero, degli “insospettabili”
e del giallo di potere, il libro trova in realtà la sua utilità più concreta
nella mole di “pizzini” che passa al setaccio offrendo al lettore l’opportunità
di una visione diretta del materiale di lavoro più quotidiano del capo
latitante. Materiale sempre infuocato, bisogna intendersi. Che ha perennemente
per protagonisti o sullo sfondo boss, clan, affari, percentuali, delitti
possibili o da scongiurare. Ma dal quale si comprende bene perché il
protagonista sia stato soprannominato “u raggiunieri”. Per lui passano affari
di ogni tipo e somme di ogni dimensione, da quelle dei grandi appalti ai
proventi di piccole estorsioni. Tutto filtrato da prudenze e pignolerie da
tipico amministratore d’azienda. Un’azienda speciale, visto che è pur sempre
un’associazione a delinquere protesa al controllo del territorio e che quindi
bilancia continuamente l’imperativo del profitto con quello del potere. Fatto
sta che l’uomo che “sparava come un dio” appare chino sul suo tavolo impegnato
a svolgere una defatigante funzione di sommo mediatore, perfetta metafora della
carriera del grande boss, dal valore militare alla gestione di relazioni
complesse. Torna dunque di prepotenza, scorrendo i pizzini, la storica funzione
di mediazione riconosciuta ai vertici
della mafia. Tra clan opposti; tra clan, imprenditori e politica. Semmai un
fatto nuovo, di estremo interesse, è -così si direbbe- l’ irresolutezza di
Provenzano nel prendere posizione nei conflitti che vengono sottoposti al suo
giudizio. Trattandosi, come detto, di uomo avvezzo alle decisioni anche
sanguinarie, sembra che qui il capo supremo sia mosso dal desiderio di non
incoraggiare fratture e guerre intestine in un momento in cui Cosa Nostra gioca
il proprio futuro sul cosiddetto “inabissamento”, ovvero sulla sua capacità
mimetica. E tuttavia viene il dubbio che tale atteggiamento sia anche dovuto
alla  particolare condizione di
latitante sempre più braccato, che non può permettersi di inimicarsi alcuna
fazione dell’organizzazione. Quanto alla zona grigia, qui l’analisi inquieta di
Grasso trova la propria ennesima conferma. Dal misterioso “Nostro Signore” che
dall’interno del Palazzo avverte il boss delle telecamere piazzate per
sorprenderlo a un summit, fino al dirigente delle cooperative rosse, Simone
Castello, incensurato e non appartenente a Cosa Nostra, che gli fa da
ascoltatissimo consulente, dotato di potere più di molti uomini d’onore.

Il libro di Camilleri va letto alla fine. Con il suo
dizionario (cugino monotematico di Parole
d’onore
di Attilio Bolzoni, Rizzoli, 2008) completa il trittico applicando
alla materia (i pizzini) il registro di una misurata ironia, proponendo notazioni
psicologiche e scorci storici di indubbia suggestione.

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