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Cari tassisti, promuovete la vostra città
(la Repubblica – Genova, 11 maggio 2009) –
Il tassista era giovane e riccioluto, la faccia simpatica.
Uscito dall’autostrada puntò verso l’aeroporto rimettendosi a parlare del
tempo. Io cercai di nuovo di fargli capire (lo faccio sempre sui taxi, in ogni
città) che non ero il turista occasionale, che ero pratico di Genova. La
pioggia me l’ero ciucciata anch’io per un anno, gli dissi. Dopo un minuto
arrivammo a destinazione. Il mio interlocutore pigiò un dito su un bottoncino
ed esclamò: sono ventisei euro. Evidentemente il messaggio subliminale non era
andato a segno. Sbottai: ma se non ho mai pagato più di venti e siamo andati
come dei razzi. E aggiunsi: e poi quando è uscito dall’autostrada il tassametro
era a 19.30, come fa a essere a 26 dopo poche centinaia di metri? Lui
incominciò a balbettare, ipotizzò che automaticamente, per una sua dimenticanza
o per un tiro mancino del destino, fosse scattato il festivo. Accettai di
pagare 21. Poi, siccome non mi piace litigare, gli diedi un consiglio:
teneteveli buoni i clienti, se no quando avrete qualche rivendicazione giusta
non vi sosterrà nessuno. Ha ragione, mi rispose.
Ha ragione. Però i tassisti, come altre categorie, sono
quelli che danno il polso immediato di una città. Se è gentile o rancorosa, se
ha regole certe o tende al suk, se è dinamica o assonnata.
Ora, nello
specifico, i tassisti godono a Genova di una tariffa di partenza (5 euro) molto
più alta che a Roma (2.80) o a Milano (3.50). Questo riconoscimento pubblico
– che avrà le sue solide ragioni – dovrebbe anche indurli a sentirsi maggiormente
partecipi dell’interesse della città. A evitare le furbate consentite da quei tassametri sempre nascosti dalla mano
sul cambio (altrove i tassametri se ne stanno ben visibili in alto accanto allo
specchietto retrovisore). A contenere nei limiti del realismo il proprio mugugno.
Mentre spesso il cliente anonimo si sente dire, della città, cose da matti, ben
oltre il normale borbottio di tutti i tassisti contro tutte le ammnistrazioni
comunali. Non ci sono turisti (e non è vero), il porto è morto (e non è vero). L’altro
giorno uno di loro mi ha dipinto Genova e i suoi destini come neanche il più
forsennato oppositore politico avrebbe fatto. Qui i rifiuti sono come a Napoli,
li nascondono in una montagna immensa dietro l’aeroporto. Tra qui e Napoli
nessuna differenza, si fanno affari sporchi su tutto. A Napoli ci sono i morti
ammazzati, gli dissi. E lui: anche qui, ma non si vedono, perché li sciolgono
nell’acido, non ha idea di quante persone spariscano qui a Genova. Esempi.
Esempi che sono minoranza. E piccoli, certo. Ma che nel loro insieme, e
intessuti in una certa quotidianità, esprimono un fenomeno su cui occorrerebbe riflettere
molto più di prima. Perché le città, molto più di prima, puntano le loro
opportunità di crescita sulla propria immagine. Non sono più il luogo in cui si
produce qualcosa e lì lo si compra e lo si vende, magari con l’aiuto dello
Stato, e poi della città chissenefrega, l’importante è l’affare. Il contesto è
cambiato: no immagine, no business. Questo cambiamento impone, sia chiaro, dei
doveri supplementari alle amministrazioni pubbliche. Ma dà anche qualche
responsabilità in più a tutti gli attori del sistema, ben al di là della
metafora del tassista (molti ne ho trovati di corretti…). Direi anzi che oggi la
qualità di una classe dirigente cittadina si possa misurare – anche – dalla sua capacità
di evitare due rischi opposti: la sindrome della mosca cieca e quella di
Tafazzi. La prima agisce quando si negano i disservizi, i ritardi o i vuoti di
iniziativa: per presunzione, per patriottismo o per interesse. La seconda
quando si spara per principio o per calcolo (politico e non solo) contro la
propria città, giocando costantemente a darne un’immagine al ribasso. In tutti
e due i casi vince una miopia, una vischiosità di sistema che allontana opportunità, deprime la fiducia e la
voglia di fare, comunica provincialismo. Ovvero il cocktail culturale peggiore
per vincere qualsiasi sfida.
Nando
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