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Pugni chiusi
Rischiavo di dimenticare una cosa. Sono andato ai funerali di Ivan Della Mea. C’era davvero una marea di persone. Sembrava che la sinistra, quella dispersa e quella ufficiale, quella delle professioni e quella dei proletari, si fosse ritrovata lì come spinta dalla voglia di ribadire la sua esistenza. Come se fosse alla ricerca di un punto di incontro, di una storia che la rassicurasse: tu esisti, tu hai creduto e in fondo credi ancora in queste idee, tu hai cantato queste canzoni e se scavi bene nella tua anima vedrai che ti viene voglia di cantarle ancora. Confesso: ho fatto un certo sforzo per non tendere istintivamente anch’io il pugno chiuso quando, alle note dell’Internazionale, Ivan è stato salutato dalla banda degli Ottoni. Perché vedere levarsi prima un pugno poi un altro, poi un altro ancora, e poi sempre più pugni, di amici, sostenitori, compagni di viaggio, è stato come essere sospinto progressivamente verso la propria giovinezza. Sembrava che alla fine non dovessi che arrivare tu, a confermare che anche tu ci credevi. Mi sono trattenuto. Cantavo l’Internazionale (oh, il carrillon che la suonava con delicatezza è raccontato anche in “Delitto imperfetto”…) ma non tendevo il pugno. Un confine. Il confine tra la mia identità di ragazzo che impara a vedere il mondo con altri occhi e la mia consapevolezza, altrettanto profonda, che l’amore che ho per la democrazia senza aggettivi non mi consente alcuna ambiguità, neppure di cuore. Ivan mi avrà capito. Al massimo mi avrà mandato bonariamente a quel paese. Certo è che mi sono commosso, e tanto. Certo è che era vero centomila volte quel che ha detto un rappresentante della fondazione “De Martino”: perché di Ivan si parlasse in televisione, perché si scoprisse quel che era, è dovuto morire. Non era glamour, in fondo. Era solo un artista libero.
Nando
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