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Le generazioni perdute di don Rigoldi. Dal carcere alla vita.
Il fatto quotidiano
1 novembre 2009
Silenzio assoluto. Neanche un “sss…”. E buio assoluto. La palestra del carcere minorile del Beccaria, un posto lunare nella Milano delle periferie, trattiene il fiato. Volontari, educatori, ispettori della polizia penitenziaria, amici e benefattori guardano in una sola direzione. Dopo una settimana di messaggi discreti tra i suoi collaboratori e la Milano progressista il momento della grande sorpresa sta arrivando. Don Gino Rigoldi fa settant’anni. Ce ne fossero dieci o dodici come lui, si mormora nel buio, Milano sarebbe un’altra cosa. Quando don Gino arriva si accende la luce. Lui vede di colpo i tavoli preparati con cura da signori, strabuzza leggermente gli occhi e poi si commuove. Applausi. Settant’anni dedicati agli altri, ai ragazzi che i reati li fanno e poi li pagano, loro sì che li pagano. Questo è il suo regno. Arrivò al Beccaria, a farci il cappellano, nel 1972 e non se ne è più andato.
Nel frattempo ha fondato di tutto. Centri alloggio, Comunità nuova, che è poi la sua holding dell’accoglienza, luoghi per i minori in Romania. Sigle. Dimore fisiche. E volontari, nella sua vita avrà avuto ormai duecentocinquanta collaboratori.
“E’ così, mi sono abituato ad ascoltare, a interessarmi, a provare affetto per il mondo giovanile. Ero in un collegio per giovani vicino a Varese, il “De Filippi”, che trasudava benessere economico. Ma poi vicino alla stazione vedevo i ragazzi senza speranza, quelli con le valigie di cartone, abbandonati. Venivano dal sud. Lì inventai la regola della mia vita. Dove c’è un problema bisogna affrontarlo. Non chiedetemi un giudizio morale, quello lo lascio a Dio. Non chiedetemi di combattere i reati, quello lo lascio ai tribunali. Io so che dietro ogni comportamento c’è un problema, e quello occorre risolvere. Perciò a Varese all’inizio cercavo di ospitare al De Filippi un po’ di quei ragazzi di nascosto. Il rettore faceva finta di non vedere. Ma alla fine fu meglio lasciare. Andai a San Donato, a Metanopoli. La parrocchia certe sere si riempiva di ragazzi a centinaia. Il parroco mi chiedeva: ma lei glielo fa il catechismo? No, dicevo. Ma li porta a messa? No, dicevo pure. A me bastava che venissero, che avessero qualcuno con cui stare. Io non ho mai avuto paura dei ragazzi e delle ragazze. Non gli piacque troppo. Così sono venuto al Beccaria. Dopo una settimana avevo già otto volontari”.
Il busto del grande pensatore illuminista dà ancora oggi il benvenuto a chi entri nel carcere minorile. Ma chi ci arriva per trascorrerci mesi o anni prende subito nota del “vero” nome che dà identità al carcere. Gino, il prete con la faccia da monello, quello a cui ci si può rivolgere quando gli altri ti voltano le spalle, come raccontavano le testimonianze lette da Moni Ovadia l’altro ieri sera nella palestra tirata a festa. “Quando mi sono accorto che, una volta usciti dal Beccaria, non sapevano dove andare a dormire ho incominciato a ospitarli a casa mia. Prima dieci, poi venti. Quando sono arrivato a trenta mi sono detto che così non si poteva andare avanti. Così è nata la prima comunità alloggio. Andammo in affitto al quartiere dell’Isola, dietro la stazione Garibaldi. Poi stando al Beccaria notavo che tutti i ragazzi arrivavano dalle periferie. E quindi mi son detto che bisognava fare qualcosa nelle periferie. Nacque la Locanda di Baggio. Una cosa stupenda, a pensarci. Era il più grande centro di consumo nazionale di Albano, un vino dei castelli romani. Centinaia di giovani, i bus che dovevano cambiare percorso. Quelli dell’Autonomia operaia non ci sopportavano, anche se poi quando finivano in galera mi mandavano lettere d’amore. Il nemico vero però era l’eroina, quei visi sconvolti.” Anni in cui Milano bruciava centinaia di vite giovanili sull’altare di questo nuovo dio. C’è una foto drammatica inchiodata nella memoria di chi li visse. Un ragazzo con la testa reclinata dietro la spalliera di una panchina al parco delle Basiliche. Nebbia, primo mattino, e un prete anonimo che dà la benedizione. “Di nuovo capimmo che c’era un problema da affrontare. Andammo da Alberto Madeddu, un grande medico che se ne occupava, andammo da don Ciotti a Torino, per capire. E ci dedicammo agli sconvolti. Una battaglia difficile, quotidiana. Ogni piccola conquista era in realtà un grande successo. Siamo andati avanti a creare strutture nuove, come la birreria del Barrio’s alla Barona, abbiamo attinto a piene mani agli obiettori di coscienza, poi un po’ alla volta abbiamo puntato su degli educatori professionali”. Che erano lì, educatori ed educatrici, venerdì sera, ad accarezzarselo con gli occhi, grati per un’avventura umana straordinaria.
Poi sono arrivati i giovani immigrati, i nuovi “nessuno” sbarcati in quantità industriale a Milano e nel suo hinterland dalla miseria e dalla speranza. “Ne ho in mente tanti di ragazzi incontrati. Gaetano per esempio. Era intelligente e deciso, voleva il futuro, un suo futuro, in modo forte. E’ morto di epatite, Aids, e di droga non ne aveva neanche presa tanta in vita sua. Oppure…ma no, lo chiamo Antonio perché se do il suo vero nome si monta la testa, ecco Antonio è uno forte, è un albanese, lui è un tipo impegnativo, vuole costruirsi un destino, ma ci devo combattere, e penso che vincerò io. E ce ne ho un altro ancora che mi sta mettendo alla prova. Ha vent’anni, un anima da delinquente, è violento, però è come tutti i giovani. Se trova un adulto che lo ascolta, che magari gli dice pirla ma lo ascolta, che sa farsi sentire vicino, entra in dialogo. Questa è davvero una sfida in cui ho deciso di metterci la faccia. Ma vincerò io”. Pazienza, amore, fiducia negli altri e in se stesso. Sembra questa la ricetta del Gino. Un giorno un gruppo dei suoi ragazzi gli portò dalla Sardegna una maglietta. C’era scritto: “Dio c’è ma non sei tu, rilassati”. Lo racconta spesso quell’aneddoto, ogni volta accompagnandolo con un sorriso d’amore per quei simpatici sfrontati. Ma stavolta ammette: “Giusto rilassarsi. Ma quando si fa quel che faccio io, ogni tanto sentirsi Dio serve”. Un pensiero, giunto ai settanta, lo dedica a chi lo ha aiutato negli anni dell’inizio. La Rita Pavesi del Tribunale dei minori, la Brunella Checchi, una mamma che gli ospitava i ragazzi, donna emiliana e generosa, e Genna Bortolotti, un’insegnante che faceva anche lei da chioccia ai suoi minori senza casa. Via via fino a oggi, a Marco Vitale e Lella Costa, a Milly Moratti e Jovanotti. “Ora basta, devo andare a far messa. Se ho ancora un sogno? Certo: vorrei rilanciare gli oratori, metterci dei laici ben formati, vorrei usare i luoghi che ci sono e hanno una tradizione, riempirli di giovani, non importa che vadano a messa. Secondo te, che ne penserà la diocesi?”.
Nando
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