L’UOMO DI SCORTA

Il fatto quotidiano, 15 novembre 2009 –

L’uomo ha una sua eleganza. Età matura, le lunghe tensioni hanno scavato il volto, ma neppure troppo. Arriva sulla sua auto senza strafare. Nell’andatura tra i vicoli nulla lascia immaginare l’abitudine a volare su auto con sirena per tutelare l’incolumità di obiettivi sensibili, leggasi personalità dello Stato impegnate nella lotta a Cosa Nostra. Appuntamento nel cuore del centro storico di Palermo e poi tranquilla passeggiata verso Mondello. Avere raccontato in teatro le avventure e i coraggi dei poliziotti (e delle poliziotte) delle scorte palermitane aiuta a ricevere qualche confidenza. Con che occhi vedono oggi da questa citta’ la lotta alla mafia gli uomini che per scelta e per mestiere si trovano più esposti agli attacchi di Cosa Nostra? “Dicono che la mafia si sia mimetizzata, inabbisata anzi è il termine più in voga. Io non lo so se sia vero. Finora forse è stato davvero così. Ma nessuno può sapere se e quanto durerà. La storia della mafia è stata sempre capita dopo. Noi dobbiamo essere sempre preparati al peggio. Alla moto che ti spunta d’improvviso accanto al finestrino perché si è rotto qualche equilibrio senza che tu ne sappia nulla. O all’autobomba che ti fa a pezzi perché qualcosa in alto è stato deciso.

E allora non dipende neanche dai tuoi nervi, dalla tua prontezza di riflessi. Allora salti in aria e basta. Senza accorgertene. Magari perché qualcuno ha fatto degli errori”.
“Quali errori vuol sapere? Per esempio quello che fecero in via D’Amelio con Paolo Borsellino. Che costò la vita al giudice. Ma costò la vita anche a cinque nostri colleghi, come sa. Ma possibile che non avessero bonificato la zona? Che a chiunque fosse consentito di posteggiare di fronte alla casa della madre? Tutti sapevano che ci andava ogni domenica pomeriggio. Un po’ di professionalità in più, mica tanta, avrebbe richiesto una tutela ferrea di quel tratto di strada. Magari l’istituzione di una zona rimozione. Morì anche quella povera ragazza, Emanuela Loi”. Una pausa nella guida, lo sguardo che vaga da un’altra parte, il tempo di inghiottire una commozione carsica, che non se ne va.

“Sì, l’ho conosciuta Emanuela. Era una novità per noi avere una ragazza in mezzo alle nostre paure e frenesie quotidiane. Eravamo sempre stati quasi  tutti uomini, era il più maschile dei reparti. Occorre destrezza, forza, abitudine a sentirsi le armi addosso in qualsiasi momento; ad avere le giacche e le camicie, anche d’estate, adatte alla pistola, mica è un giocattolo. Quando l’ho vista mi è sembrato che qualcuno portasse un po’ di allegria nel nostro lavoro. Non era come la battuta per sdrammatizzare che si fa tra colleghi nei momenti di tensione. Era un’altra cosa. Era solare, quella ragazza. Rideva con gli occhi quando restituiva le mitragliette dopo il servizio. E certo che la corteggiavano. Anche in modo esagerato. Un giorno per scherzo le dissi ‘Guarda che ti mozzo gli orecchi’ se ti fai intrappolare. Avevo paura per lei. Che so, era una questione istintiva. Mi sembrava che fosse in pericolo, mi pareva troppo fragile per fare il nostro mestiere. Poi seppi che aveva come capopattuglia Agostino”.

Qui di nuovo l’uomo delle scorte inghiotte qualcosa. Memorie di  fumi infernali e rischi solitari, dolori, vittorie e delusioni. Agostino è Agostino Catalano, uno dei cinque agenti (gli altri si chiamavano Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina) fatti in pezzi dal tritolo di quella domenica di luglio. “Agostino era bravo, era preparato, era esperto. Perciò pensai che Emanuela fosse al sicuro, che fosse finita in buone mani. Invece tutti in aria. Perché in questi casi la tua bravura e il tuo sangue freddo non c’entrano più niente. Quando mi dissero che li avevano uccisi andai direttamente sul posto, perché non ci credevo, parola mia che non ci credevo. Dovevo vederlo”.

Guida tranquillo, l’uomo delle scorte, ogni tanto mette la mano su una pistola alla sua destra, sottratta alla vista del passeggero. “Lei vuol sapere qual è la situazione oggi? Le rispondo con i dati raccolti dai nostri sindacati. Alla questura di Palermo, dicono, mancano circa trecento uomini rispetto agli organici, che sono quelli fissati nell’89, prima delle stragi. E delle 540 auto assegnate alla questura, ben 190 sono praticamente fuori uso. Un terzo delle auto fuori uso. Rendo l’idea? Non so se sia vero, ma non ho motivo di dubitare delle cifre raccolte dai nostri colleghi. Quanto alle auto delle scorte, abbiamo venti blindate con più di duecentomila chilometri addosso. Sarà ovunque così, chi lo sa… Ma noi siamo in una situazione di frontiera. Lo dicono e non ne tirano le conseguenze. Sa, io lo ricordo bene il ministro Scotti quando era agli Interni e diceva ‘mai più senza blindate’. Come a dire, adesso vi daremo auto adatte alla missione che lo Stato vi ha affidato. E invece siamo di nuovo a terra. Certe volte mi capita di passare davanti alle fermate degli autobus con la marmitta che fa un rumore spaventoso e allora per la vergogna mi volto dall’altra parte per non incrociare lo sguardo dei cittadini fermi sul marciapiede.”

“Certo che ci sono legato a questo lavoro. Non solo perché mi sento utile allo Stato, ma anche perché nella maggior parte dei casi serve a proteggere persone che stimo moltissimo per quel che fanno. Sarei potuto tornare nella mia regione, andare a vivere a duecento metri dalla casa dei miei ma non l’ho fatto, sono rimasto qui. Anche se devo mandar giù palate di indignazione. Ma lei lo immagina che cosa provo io quando vedo decine di persone mettersi in fila per baciare le mani a persone a cui sono costretto a fare la scorta? Lei lo immagina che cosa provo io quando sento dire da certi pulpiti che Vittorio Mangano era un eroe? Ho fatto cose da rischiare la vita, mica solo scortare giudici e investigatori. Ho svolto indagini che nessuno sa se non una o due persone, che avevano titolo a coinvolgermi, sia chiaro. Ma proprio perché certe cose non sono sapute ed è pure bene che non le si divulghi, nessuno mi ha mai detto grazie.”

L’uomo fa una pausa, guarda il mare alla sua destra, poi ferma gli occhi su quelli del suo interlocutore. “Ma non è questo che mi interessa. A me importa solo una cosa. Che noi delle scorte non veniamo visti come gorilla. Vede, a noi viene richiesta una professionalità altissima, e siamo orgogliosi di averla. Così come siamo orgogliosi della nostra disciplina. Per questo c’è una cosa che ancora mi disturba. Che si dica, che si sia tramandato, che tutti raccontino oggi che noi uomini delle scorte ci ribellammo alle autorità dello Stato dopo le stragi. Questo non è vero. Noi facemmo solo una manifestazione sindacale. E le manifestazioni sindacali in una democrazia sono legittime. Noi non ci siamo ribellati. Non c’è mai stata insubordinazione. Anche se si saltava per aria. Noi sappiamo bene che cos’è la disciplina. Questo m’importa che si sappia. Lo faccia sapere, per favore”.

Il sole è alto su Mondello. Autunno 2009, questo e’ uno dei volti dello Stato nell’Italia senza bussola di leggi e di decenza.

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