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La vicenda Ambrosoli
La recensione del libro Qualunque cosa succeda di Umberto Ambrosoli (Sironi ed., 2009)
pubblicata sul numero di novembre dell’Indice dei libri del mese.
Trent’anni dopo. Tenerezza, inquietudine, malinconia. Se ogni libro si lascia dietro una scia di sentimenti, questi sono i tre che si confondono e che confondono dopo avere chiuso “Qualunque cosa succeda”. E’ il libro scritto da Umberto Ambrosoli sulla vicenda del padre Giorgio, l’avvocato milanese chiamato dalla Banca d’Italia a tutela dei contribuenti e dei creditori della Banca privata italiana, portata da Michele Sindona a fallimento. Il libro racconta una vicenda che per molti aspetti è già stata magistralmente ricostruita da Corrado Stajano nel suo “Un eroe borghese”, pubblicato da Einaudi nel 1990, e poi tradotto in film a qualche anno di distanza, con Fabrizio Bentivoglio nella parte di Ambrosoli. Quel libro ebbe il merito di restituire a tutti con la dovuta forza e passione la storia misconosciuta di questo avvocato monarchico e liberale costretto suo malgrado, come scrisse lui stesso alla moglie Annalori, a fare politica a quarant’anni. Politica in senso ampio, si intende; ma purtroppo non sufficientemente ampio da evitargli di doversi confrontare ogni giorno e con ossessiva puntualità con i vertici del potere degli anni settanta, a partire da Giulio Andreotti e Gaetano Stammati.
Perché, dunque, vale la pena leggere questo libro anche se si sono già provati rabbia e commozione scorrendo le pagine di Stajano? (continua)
Prima di tutto per la tenerezza che emana. Sembra poco, ma non lo è. Il lettore appena sensibile infatti viene messo a contatto con un coinvolgente esperimento mentale e affettivo. Quello di un figlio che si vide uccidere il padre quando aveva solo sette anni, quando nulla sapeva del mondo ma già,origliando dietro le porte del salotto, aveva intuito (come possono i bambini) i pericoli che il genitore correva. Che andò dietro di lui per l’ultima volta in un funerale semideserto, vivendo la paradossale solitudine di un uomo che aveva lavorato per lo Stato. Che è diventato a sua volta avvocato e che vuole ripercorrere gli anni cruciali del padre, la sua battaglia contro Sindona e contro un potere corrotto e connivente. Non potendo allineare ricordi adulti, ma portando nella memoria solo pochi, innocenti ricordi infantili. Ed essendo costretto a inseguire le tracce paterne sui documenti dell’epoca, sugli appunti di lui, sugli atti giudiziari, setacciando le testimonianze degli amici e dei collaboratori più stretti. A ricostruire il contesto che portò al delitto studiando i libri di storia. E’ come vedere un giovane professionista che compie un viaggio nella memoria che non ha, forte però dell’altra memoria che ha: quella dell’amore ferito, del dolore che gli ha scorticato l’infanzia, della fatica di vivere di un’intera famiglia e soprattutto della madre. Studia le carte come se fosse una sua causa di oggi, Umberto Ambrosoli; le centellina, camminando certo sui sentieri di Stajano. Ma non ridice le stesse cose, non usa gli stessi accenti. E non può perché quello che lo scrittore chiama “Giorgio Ambrosoli” lui chiama sempre e soltanto “papà”. Mai mio padre. Papà, esattamente come lo chiamava e come ha smesso di chiamarlo da bambino, molto prima di crescere. Da lì, da quel nome comune di persona che non cambia, riprende un cammino in cui tutto viene vagliato stavolta con la lucida competenza dell’avvocato in grado di pesare parole, atti, silenzi e dubbi.
E’ appunto questo rapporto mai dichiarato tra infanzia ed età adulta, questo mettersi a nudo negli affetti lavorando sui documenti più ufficiali, si tratti di Banca d’Italia o di Procura di Milano, è questa riscoperta del padre che suscita (certo senza intenzione) sentimenti di tenerezza e deposita un velo particolare anche sugli altri due sentimenti che la lettura lascia in eredità, l’inquietudine e la malinconia.
Partiamo dal primo, dunque. Nasce dallo scenario ricostruito dall’autore, che solleva in chi fu partecipe della storia di allora quasi una sensazione di sgomento. La storia della corruzione della Dc, partito di governo per antonomasia in un sistema politico bloccato. Il nucleo di potere politico-bancario-affaristico-giudiziario che per circa un ventennio fece da perno romano a un intero sistema. Una finanza spregiudicata e d’avventura allevata e protetta in cambio di regalie private contro l’interesse della collettività governata.
L’intreccio mefitico tra partiti, P2 e mafia, con le stesse entità e persone che rappresentano di volta in volta indifferentemente una o l’altra componente dell’intreccio. Sindona e Andreotti, Sindona e la mafia, Sindona e Gelli. I piani di salvataggio per il bancarottiere elaborati o caldeggiati nei luoghi delle istituzioni contro i contribuenti, difesi a loro insaputa da quello sconosciuto avvocato, testardo e provvisto di una assurda etica del dovere, in nome della quale rinuncia a tutte le offerte di Sindona, compresa la presidenza di una banca. Il capo del governo che tratta gli interessi di un latitante venendone visibilmente ricattato, e manda suoi emissari a incontrarlo. Il deus ex machina dell’economia italiana, Enrico Cuccia, che viene informato dei propositi omicidi di Sindona contro Ambrosoli e non lo avverte per paura. L’arresto proditorio di Baffi e Sarcinelli, colpevoli di sostenere da via Nazionale l’uomo che rappresenta comunque la Banca d’Italia. Le interrogazioni parlamentari che piovono contro l’avvocato e il silenzio di chi dovrebbe e potrebbe parlare in suo favore, con la sola eccezione di Ugo La Malfa.
E’ questo intrico di complicità, abusi, illegalità, vigliaccherie contro cui è costretto a lavorare Ambrosoli che inquieta. Non solo o tanto per essere esistito. Ma, almeno nel caso di chi scrive, per lo scarto che si coglie tra la realtà nuovamente rivelata e la pallida memoria che se ne porta. Quante volte in effetti in questi anni travagliati si è sentito rimpiangere quegli anni in cui esisteva “almeno un superiore senso delle istituzioni”? E’ difficile pronunciarsi sulla questione se ieri fosse meglio di oggi. Ma certo il racconto di Umberto Ambrosoli, anche per la partecipazione umana che è in grado di suscitare in chi conosce il finale della storia, in chi ha ben presente quello William Aricò venuto dagli Stati Uniti per chiedere a bruciapelo la sera dell’11 luglio del ’79, “l’avvocato Ambrosoli?”, pretende un ripensamento. E per questo genera inquietudine.
Così come la genera la constatazione che esattamente le stesse argomentazioni del potere odierno vennero addotte da Michele Sindona per difendere le proprie malefatte e i propri interessi dalle leggi della Repubblica. Turba la consonanza delle parole e dei toni di allora con le parole e i toni di oggi. Le sinistre e i giudici, la persecuzione contro i nemici dello statalismo, l’assalto ai rappresentanti della cultura e dell’economia liberale. Con tanto di alti magistrati e di politici e di giornalisti che si mettono al servizio del grande fuorilegge. Come se in trent’anni il livello delle elaborazioni ideologiche fosse rimasto lo stesso di un finanziere che diventò folclore criminale inventandosi un rapimento a opera delle brigate proletarie per una giustizia migliore. Che si fece pagliaccio prima di diventare assassino.
Infine c’è la malinconia. Rivivere la vicenda di un professionista costretto a fare politica e che lascia quel suo messaggio premonitore alla moglie (“qualunque cosa succeda”, appunto), induce un senso di colpa collettivo per non averlo saputo e potuto sostenere, almeno quanto oggi (e in questo sì, molto è cambiato) l’opinione pubblica più consapevole e combattiva sa sostenere i funzionari dello Stato impegnati nella difficile lotta per la legalità. Troppo diverse erano le preoccupazioni pubbliche del tempo per farsi carico della missione nazionale dell’avvocato, “qualunque cosa succeda”.
Recentemente proprio la famiglia Ambrosoli è stata colpita da un nuovo dolore, la morte improvvisa del maggiore dei figli, Filippo, tante volte citato da Umberto nelle sue pagine. Se nessun libro può prescindere – in ciò che rappresenta per noi – dal vissuto del suo autore, questo acquista una venatura malinconica più forte proprio se messo a confronto con il destino più recente. Il mattino del 2 ottobre scorso la chiesa di San Vittore a Milano, a pochi metri dal luogo del delitto del ‘79, era strapiena. Nessuno l’ha detto, ma ognuno l’ha pensato: che quella folla fosse il risarcimento (l’unico possibile) alla famiglia per il funerale in cui nessuno del governo andò, e in cui le poche foto ripresero una madre con tre bambini ai lati, costretta ad allevarli da sola nei valori dell’onestà perché “qualunque cosa” era successa.
Nando dalla Chiesa
Nando
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