DROGATI DI VITA. Cronache dalla Cascina Tario

 (il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2009)

Minchia che festa!”. Ha gli occhi improvvisamente luminosi, Peppino. Sorpreso, quasi rapito, dopo l’ingresso svogliato nello stanzone della cascina. “Minchia” ripete. La grande torta con la candelina luccica nella penombra preparata con sapienza dagli amici e dalle assistenti sociali. E’ la torta del suo compleanno. Era dal mattino che Peppino si lamentava con tutti quelli che incontrava. “Ma è possibile che è da ieri sera che sapete che oggi è il mio compleanno, e a nessuno di voi viene in mente di farmi gli auguri, neanche per sbaglio? E poi ci raccontiamo che qua siamo tutti amici? Andate a quel paese”, protestava. Una, due, tre volte. E gli altri zitti. Sguardi d’intesa, sorrisi clandestini, in attesa della metà pomeriggio, della candelina da fare guizzare all’imbrunire.

Ora sorride e rivede il film della giornata, dei suoi accidenti e dei silenzi altrui. “Avete fatto un blitz”, si complimenta. “Gli ultimi che mi hanno fatto un blitz sono stati quelli della squadra antirapine” aggiunge scoppiando a ridere. Già, è stata anche l’ultima sua condanna. Un reato commesso due mesi dopo il celebre indulto che non bastò a migliaia di detenuti per uscire per sempre dal carcere. Nemmeno a lui. La forza maledetta della droga. “Era da anni e anni che non mi sentivo bene, il mio sogno era ‘farmi’. Questa è la festa dei miei 44 anni, basta galera sbirri droga solitudine, voglio mettermi in gioco, la spugna non la butto, voglio andare avanti, fare cose che non ho mai fatto, come festeggiare il mio compleanno, appunto. Ho una figlia di 18 anni. Qui non ci sono venuto per fare un piacere a nessuno, ma perché ho delle responsabilità come padre. E finalmente ho trovato la donna che amo. Fuori non sarà facile. Ma la mano me la stanno dando e io la voglio afferrare. Anche se ogni tanto scivola”.

Qui”. “Fuori”. “La donna che amo”. Qui è la Cascina Tario, un immobile a due piani disposto su due lati perpendicolari. Molte piante e un laghetto. Una comunità di recupero di tossicodipendenti, con precedenti penali alle spalle, e quasi tutti sieropositivi. Già proprietà confiscata dei clan siciliani in Piemonte, quelli che uccisero il procuratore Caccia nell’83, è diventata un luogo in cui si gioca in gruppo una delle sfide più difficili. Imparare la fiducia nella vita partendo non da zero ma da meno qualcosa. Dal ’96 ci sono passate 108 persone. Ci lavorano sette operatori e decine di volontari. Persone di testa e di cuore, che nella naturalezza delle parole, nella semplicità delle analisi, stillano esperienza di lunghe radici, cultura professionale, nessuna prosopopea. A dirigerle c’è Silvia, che è qui dal 2002, una sensibilità raffinatissima, in dubbio se quel che funzionava tre anni fa possa funzionare oggi, “il nostro mondo cambia alla velocità della luce”. Fuori è il verde della campagna di Andezeno, neanche duemila abitanti a pochi chilometri da Chieri, provincia ricca di Torino. Ma è soprattutto una società che sempre meno sa essere generosa con i diversi, con chi è stato in carcere, con gli ultimi della terra. Tanto che per un po’ di anni la comunità è stata guardata con diffidenza, “come uno zoo”, chiosa Silvia. “Ora però la invitiamo qui la gente”, aggiunge con orgoglio.

Anche perché qui gli ultimi scoprono in sé qualcosa di diverso. Anche la donna che amo di Peppino, Anna, una bellezza ancora giovane, una proprietà di linguaggio e una cultura superiori, una vena artistica che sfoga in dipinti e artigianato. Quattro figli, uno morto in carcere, una laureata. Anche lei è passata dal carcere. “Soffrire è facile, difficile è uscire dalla sofferenza e cambiare. Questa è una grande famiglia, io pretendo molto dagli altri, e qui resto colpita dalla diversità, chi ce la può fare e chi no. In ogni caso può sembrare un contesto un po’ triste ma qui ce la spassiamo abbastanza, sa? Per me questa è la casa di campagna. E le fatiche te le godi. Vuoi mettere il piacere del giardino così ben curato o delle tende rifatte?”. Silvia prende la palla al volo: “Appunto, perché non raccontate cose diverse dalle rapine?”. “Perché sono cose indelebili”, risponde Marina, una delle ospiti più recenti. Anche lei, torinese, precedenti con la giustizia. Ma il suo tormento è un altro: “Mi ha deluso di me, venendo qui, di avere un pregiudizio per i sieropositivi. Noi tossici diventiamo giudici severi verso chi è come noi. Sappiamo essere ‘piccoli’, come esseri umani intendo. In otto mesi però sto riscoprendo chi sono”. Roberta, già ospite della cascina, è venuta a trovare i suoi amici. Perciò si infila a buon diritto nella conversazione: “Be’, ragazzi, oggi mi metterei su un albero a piangere. Praticamente sono nata e cresciuta in comunità, me le giro da dieci anni, mi son detta ‘questa è l’ultima’ e qui in un anno e mezzo mi sono rafforzata, ho imparato ad apprezzare le piccole cose quotidiane. Ho capito che non sono una persona che semina solo merda, che raccolgo buoni frutti. Gli operatori sono la mia famiglia, gli unici che mi hanno aiutato nella vita, d’altronde i genitori non ce li ho da quando avevo sei anni”. La famiglia? Anna restituisce a Roberta: “Quando sono stata in ospedale in fin di vita, dei miei non c’era nessuno. Però c’era Roberta. La famiglia lo sai che più di tanto non può dare. Così ne scegli un’altra”

C’è un’aria di società in costruzione silenziosa alla Cascina Tario. Marina, la volontaria più intraprendente, tiene i rapporti con i movimenti civili esterni. Porta libri da leggere. Loro leggono e poi commentano un capitolo a testa. E alla fine si applaudono, prendendosi in giro. Uno di loro è capitato di passaggio, vuole partecipare, commenta un capitolo, si sofferma su qualcosa che gli ricorda il pallone. Confida che giocava a pallone ma che non può più. Una notte, pieno di droga, perché spacciava e si faceva, è finito in coma in un parco di Torino. Si è svegliato in ospedale: i topi gli avevano mangiato mezzo piede. Storie di dolore e di speranza non finirebbero mai. “Questo è un porto di mare”, commenta a bassa voce Peppino. “Arrivi qui e pensi che si sia tutti uguali. Invece ognuno ha la sua storia, poi le etichette ce le mettiamo noi. Sì, Anna aveva il complesso di prendere in braccio un bambino. Pensava di potergli fare del male, perché era sieropositiva. Ma io ora il fatto di essere sieropositivo non me lo sento più”. In fondo, sul tavolo dietro i divani, resiste sbriciolata la torta della sorpresa. Candelina spenta e ancora la scritta in superficie. “Auguri Peppino”. Minchia che festa.

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