Il dizionario della mafia. Lo Stato

Carlo Alberto dalla Chiesa lasciato solo da chi servì

(l’Unità, 24 dicembre 2009)

Lo Stato sopra di noi. Come il cielo. Allo Stato appena diventato
repubblicano Carlo Alberto dalla Chiesa rispose sì alla fine degli anni
quaranta, quando non si trovavano ufficiali dei carabinieri disposti ad andare
in Sicilia, nell’isola impazzita: banditismo, separatismo e la mafia che abbatteva
i sindacalisti come una furia impunita. Il capitano che aveva fatto la Resistenza rispose
all’appello del governo. E andò volontario a Corleone benché avesse famiglia a
Firenze: una moglie incinta e una bambina. Giunse nell’isola dove il governo
trescava con la mafia e con il banditismo. E con i suoi carabinieri volle
rappresentare lo Stato come se lo immaginava lui. Perciò, anche se gli omicidi
dei dirigenti contadini restavano impuniti quasi d’ufficio, indagò caparbiamente sull’assassinio di
Placido Rizzotto, sindacalista socialista. Mandò davanti ai giudici Luciano
Liggio, il futuro capo dei corleonesi. Che venne assolto per insufficienza di
prove mentre lui, trentenne, venne rispedito a Firenze.

Lo Stato come orizzonte di vita. Il capitano ormai diventato ufficiale
superiore, e passato per tutte le soddisfazioni e umiliazioni di chi serve le
istituzioni credendoci, fu promosso colonnello. Gli venne chiesto, mentre
terminava il suo incarico di comandante di Milano e provincia, dove volesse
andare. Rispose o Bolzano o Palermo. Comunque in trincea: a Bolzano c’era il
terrorismo altoatesino, a Palermo la mafia. Alla fine scelse Palermo, dove
aveva un’esperienza importante da offrire e dove aveva i suoceri; un modo (forse
l’unica volta in cui poté farlo) per conciliare lo Stato e la famiglia, il
dovere e gli affetti. Di nuovo servì le istituzioni come se le immaginava lui.
Lavorò alle planimetrie e alle genealogie delle famiglie mafiose, sostenne
indagini difficili in anni in cui i clan avevano una dimestichezza sfrontata
con lo Stato. Mandò a processo centinaia di boss per vederseli quasi tutti
assolti per insufficienza di prove. Il reato di associazione mafiosa non
esisteva e anche quello di associazione a delinquere non se la passava bene con
gli amanti del diritto. A Catanzaro, a Bari, a Lecce, giudici senza cultura e
senza coraggio diedero via libera a una storia feroce e sanguinaria. Alla
notizia della prima assoluzione di massa lui batté in silenzio un pugno contro
il bracciolo della poltrona. Nulla di più. Non si perse d’animo. L’anno dopo si
presentò davanti alla Commissione parlamentare antimafia e per la prima volta,
di propria iniziativa, fece i nomi dei principali politici collusi, a partire
da quello di Vito Ciancimino. Poi inviò al parlamento un rapporto ufficiale a
sua firma, “Il comandante della Legione Carabinieri di Palermo”, con fatti e
nomi (Salvo Lima e Giovanni Gioia) destinati ad andare al governo di lì a poco.
La Commissione
antimafia acquisì quel rapporto e lo depurò a futura memoria dei nomi più
scomodi.

Lo Stato come valore più alto. Dopo sette anni trascorsi in Sicilia il
colonnello venne promosso generale. Era il ’73. Nel paese incubava il
terrorismo delle Brigate Rosse. Lo affrontò in modo non convenzionale, con
astuzia, studi certosini e forza militare. Ottenne rilevantissimi successi. Ma
il suo nucleo speciale venne inspiegabilmente sciolto. Di nuovo, come già in
Sicilia, fece i conti con l’incapacità della politica e della società di capire
i pericoli che minacciano le istituzioni. Per troppi -così imparò- Stato e
democrazia non coincidevano. C’era chi amava lo Stato senza democrazia, chi la
democrazia senza Stato. Messo ancora da parte, venne richiamato a garantire la
sicurezza esterna della carceri contro gli assalti o i tentativi di evasione
dei terroristi. Si adoperò con entusiasmo rinnovato ottenendo risultati
indiscussi. Dovette però iniziare a vivere come un latitante. Stato e famiglia,
a quel punto, non si conciliarono più. La moglie morì di cuore dopo
l’assassinio del giudice Palma, suo stretto collaboratore. Così si dedicò tutto
allo Stato. Dopo il delitto Moro gli venne data la guida della lotta a un
terrorismo ritenuto imbattibile e onnipotente. Continuò a vivere alla macchia,
senza orari e dormendo nelle foresterie delle caserme di tutta Italia. Puntò
sulla natura politica del terrorismo (che non considerò mai “criminalità
comune” come si voleva allora) per ottenere i primi pentimenti e le prime
confessioni. Il terrorismo fu sgominato in pochi anni. Completò la missione da
comandante della Divisione Pastrengo di Milano. Poi, nell’82, andò come
vicecomandante dell’Arma a Roma. Felice di toccare il più alto grado allora
raggiungibile per chi veniva dalle file dell’Arma; e soprattutto orgoglioso di
eguagliare suo padre, vicecomandante trent’anni prima.

A Roma capì perché non aveva mai amato la capitale. Pagò l’invidia per
la popolarità raggiunta. Di nuovo emarginato, chiese al governo di ridargli un incarico operativo, di
farlo sentire “utile allo Stato”. Accettò l’incarico di prefetto di Palermo con
compiti di coordinamento della lotta alla mafia. Sorsero questioni di poteri e
competenze. Lui spiegò con chiarezza che cosa intendesse fare. Fece anche
capire all’onorevole Andreotti, suo diretto superiore nella lotta al
terrorismo, che non avrebbe avuto riguardo “per i suoi grandi elettori
siciliani”. Ricevette segnali ostili dalla politica locale, e lo scrisse al
capo del governo di allora, Giovanni Spadolini, attribuendoli alla “famiglia
politica più inquinata del luogo”, appunto quella andreottiana. Quando il 30
aprile dell’82 i clan uccisero il segretario del Pci siciliano Pio La Torre, venne catapultato in
Sicilia in giornata. Quanto ai poteri e alla natura del mandato, ancora tutti da
definire, si fidò delle promesse e del senso dello Stato dei governanti. Che
non ci fu. O non ci fu abbastanza. Si trovò solo, privo degli uomini fidati che
chiedeva. Non si perse d’animo. Andò a parlare agli studenti,e fu il primo
prefetto a farlo. Andò dalle famiglie dei tossicodipendenti e chiese loro di
essere le sue “forze dell’ordine”, e fu il primo prefetto a farlo. Mobilitò i
sindaci, strinse una solida alleanza con la Chiesa del cardinale Pappalardo e dei preti di
strada. In luglio si sposò in seconde nozze con una giovane crocerossina. E intanto
cercò una volta in più di essere lo Stato come lui si immaginava. Indagini
fiscali, fascicoli sulle collusioni politiche e il verbo della democrazia da
diffondere. Sostenne che il primo modo per sconfiggere la mafia era quello di
assicurare ai cittadini i loro elementari diritti. Per questo si scontrò con il
sindaco di Palermo, secondo il quale a Palermo c’era delinquenza come
dappertutto. Tra i due, il governo scelse il sindaco. Telefoni che non rispondevano,
politici che si negavano. Lui commentò: finché una tessera di partito conta più
dello Stato, non riusciremo mai a sconfiggere la mafia.

Isolato, restò lo stesso. Perché lo Stato non poteva gettare la spugna
davanti ai cittadini onesti. Rimase anche dopo che Cosa Nostra fece trovare due
cadaveri nel bagagliaio di un’auto davanti alla caserma dei carabinieri di
Casteldaccia e annunciò ai giornali che “l’operazione Carlo Alberto è quasi
conclusa, ripetiamo: quasi conclusa”. Dopo quattro mesi di dibattito pubblico,
l’operazione fu conclusa davvero. Il prefetto generale venne ucciso con la sua
giovane moglie. La notte la sua casa fu perquisita; la cassaforte svuotata. Non
dalla mafia. I suoi funerali furono i più veloci della storia. Il cardinale
Pappalardo denunciò la
Palermo-Sagunto
 espugnata
“mentre a Roma si discute sul da farsi”. Ma dopo neanche ventiquattro ore dal
delitto il prefetto-generale era già a Milano; rispedito lontano dalla Sicilia,
dove aveva osato tornare per rappresentare lo Stato (il “suo” Stato) per la
terza volta. Gli diedero una medaglia d’oro al valor civile. E a Roma
continuarono a discutere.

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