L’architetto milanese allergico agli intrallazzi

(Il fatto quotidiano, 27 dicembre 2009)

Questa è una di quelle storie che vanno raccontate scoprendo
subito le carte. Perché la protagonista è amica di chi scrive. Ma nel caso il
rapporto di amicizia va a beneficio del lettore perché ha aiutato la conoscenza
in diretta dei fatti che qui si narreranno. Lei è un architetto, con il dono
della pittura. Che vive contromano fin dai natali. Donata Almici, questo il suo
nome, è infatti originaria di Coccaglio, il paese bresciano proiettato
recentemente in prima pagina dalla strabiliante idea del White Christmas partorita dal sindaco leghista per combattere l’inquinamento
etnico. E, pur venendo da una delle famiglie borghesi più antiche di Coccaglio,
sfoggia come massimo motivo di orgoglio una nipotina di colore in nome della
quale si batte come una tigre contro ogni battuta razzista, a Coccaglio ma
anche a Milano.

Ha un carattere tosto, l’architetto, intollerante solo verso
la corruzione e i clientelismi. E fu proprio questo temperamento a portarla,
nell’85, a essere (ecco dove nacque l’amicizia) tra i soci fondatori del
circolo milanese “Società civile”, impegnato in prima fila contro il degrado
etico della vecchia “capitale morale” del Paese. Un temperamento gettato anche
nella vita associativa della professione. Per esempio da direttore di AL, il giornale degli architetti della Lombardia. Funzione
non contestata da nessuno fino all’esplosione di Tangentopoli. Quando inizia a
salire la marea degli scandali, l’Almici fa una scelta: dare la parola al mondo
degli architetti. I quali scrivono ad
AL per denunciare la condizione di corruzione e monopolio abusivo che
caratterizza la professione a Milano e hinterland. Un monopolio goduto da una
ristretta cerchia di architetti facenti capo ai partiti della sinistra:
Epifanio Li Calzi, Andrea Balzani e Claudio Dini soprattutto. A quel punto il
presidente dell’ordine di Milano Demetrio Costantino, anziché tuonare contro
gli inquisiti, chiede le dimissioni di lei dalla direzione del giornale e, non
ottenendole, compie la scissione. L’ordine di Milano si fa un
house
organ
 tutto suo e invia un richiamo alla moralizzatrice, rea di essere
intervenuta sul tema anche sull’
Espresso e su altri giornali. Una scomunica da qui all’eternità, parrebbe; se è
vero che due anni fa
AL (tornato
a essere il giornale unitario degli ordini lombardi) ha dedicato un numero
monografico alla propria storia pubblicando un’intervista a tutti i direttori;
tutti tranne lei, che aveva annunciato di volere ribadire i suoi eretici
convincimenti.


Ebbene, è per questa sua storia che nel 2007 il ministero
dell’Università (dove chi scrive era sottosegretario), dovendo rinnovare i
propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle accademie di Belle
Arti, quando arriva il turno di Brera pensa a lei. Tra i molti problemi che
emergono in accademie e conservatori vi è infatti quello del rigore
amministrativo, che dà luogo, fra l’altro, a diversi commissariamenti. Donata
Almici arriva a Brera con il nuovo presidente Gabriele Mazzotta. E si imbatte
in questioni che sollecitano subito il suo uzzolo moralistico. Gli appartamenti
della Fondazione Lombardo Croci, ad esempio. Destinati a sostenere artisti
indigenti e invece concessi a condizioni di estremo favore, rispetto ai valori
di mercato, a docenti dell’Accademia; con le entrate (circa 50.000 euro l’anno)
destinate a finanziare mostre. Quest’anno finalmente il consiglio d’amministrazione
ha ottenuto, dietro sua insistenza, che i canoni vengano adeguati e i proventi
effettivamente corrisposti ad artisti in difficoltà. “Sotto Natale ha
telefonato un vecchio professore di Brera, bisognoso, e ha chiesto se fosse uno
scherzo”, dice lei, che considera quella telefonata una sua vittoria. Ma
soprattutto quel che la porta in tensione con larghe fette dell’Accademia è il
clamoroso avanzo di bilancio, che lei scodella all’attenzione della stampa
milanese, in particolare del “Corriere”. Nella primavera del 2008, in sede di
bilancio consuntivo, scopre che c’è un attivo di otto milioni e mezzo di euro
parcheggiato in banca mentre i locali di Brera vivono una più volte documentata
e lamentata situazione di degrado. “Inconcepibile incapacità di spesa”,
commenta lei. “E il bello è che dopo averlo fatto rilevare al Consiglio
Accademico, che è l’organo titolato a fare le proposte di spesa per la
didattica, quest’anno l’avanzo è aumentato di un altro milione di euro. Di
fronte a questa anomalia abbiamo fatto abbassare le tasse degli studenti, per
un totale di un milione e centomila euro in meno. E visto che parliamo di
studenti, come si fa a non indignarsi quando ci si accorge che ci sono 450.000
euro di borse di studio non assegnati, che si è fatta una commissione per
risolvere il problema e a distanza di un anno ancora quelle somme non sono
andate agli allievi meritevoli? Qui sui giornali si parla di Brera ormai solo
per polemizzare sul suo trasloco parziale nella caserma di via Mascheroni. Si
sono inventati anche la bufala dell’uranio impoverito nei nuovi locali o che la
caserma sarebbe una topaia. Ora, l’uranio impoverito è sempre l’eredità di
bombardamenti aerei, e qui a Milano non se ne sono visti, mi pare. Quanto alla
topaia, non solo non è vero, ma semmai bisognerebbe vedere lo stato di alcuni
locali di Brera: assenza delle minime norme igienico-sanitarie o di sicurezza,  abbiamo dovuto avviare dei primi
interventi con il Provveditorato alle opere pubbliche. Sul trasferimento, che
sarebbe solo parziale (le discipline storiche resterebbero in via Brera) e
consentirebbe comunque di avere una superficie totale più estesa, si può anche
discutere. Il guaio è che questa polemica fa sparire la questione del rigore
gestionale. E certo a molti non dispiace. Ma è possibile che nell’ultimo
consiglio mi sia vista proporre delle cifre di centinaia di migliaia di euro di
spesa, ripeto, centinaia di migliaia di euro, senza alcun progetto, sotto la
voce generica, che so, ‘iniziative culturali’ o ‘acquisti di beni e servizi’?”.

Conclusione non scontata, almeno in Italia. Dimissioni. In
un contesto invece scontatissimo: silenzio assoluto. Una perfetta metafora
dell’Italia a rovescio. L’architetto in prima fila a denunciare gli intrallazzi
della professione che subisce il richiamo del suo ordine. L’amministratore
pronto a denunciare i misteri di bilancio di una grande istituzione culturale
che invece di suscitare dimissioni altrui è costretto a dimettersi. Storie di
un paese che non cede. Ma che paga il prezzo amaro di tenere alla sua faccia.

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