Il gazebo “militante” del signor Orsini

il Fatto Quotidiano

14 febbraio 2010

Datemi un gazebo, solleverò il mondo. Fossero tutti come lui, il famoso radicamento della Lega sarebbe una quisquilia. Lui è Gianfranco Orsini, classe 1927 ma nessuno gli dica che ha ottantatre anni perché “sono nato in dicembre”. Chi è abituato a frequentare o a scrutare da lontano i gazebo e i banchetti elettorali nel centro di Milano, lo riconosce subito. C’è da sempre, almeno da una Repubblica, la seconda. Fino agli anni novanta aveva fatto soprattutto il tecnico per aziende elettriche ed elettroniche italiane e belghe, occupandosi delle prime centrali nucleari. Come dipendente (“guadagnavo tanto, mi davano lo 0.5 per cento del fatturato”) e poi come agente. Politica pochina. Solo il tifo per i partigiani da ragazzo. Il 26 aprile saltò sul camion degli insorti a Lodi, la sua città, per festeggiare la Liberazione ma ne scese quando gli misero un fucile in mano per andare a contrastare un’ultima colonna tedesca. “Non avevo mai usato un’arma e pensai che ci sarei rimasto come un uccellino, poi per fortuna di tutti la colonna dirottò verso est”. Dopo di allora generiche simpatie per i liberali di Baslini, uno dei padri della legge sul divorzio.  

A conquistarlo alla politica fu Mariotto Segni con i suoi referendum, 1991 e 1993. “Sì, il mio primo gazebo l’ho fatto con lui. Insieme a Rivera che era il mio idolo di milanista, anche se poi il Milan l’abbiamo lasciato tutti e due a Berlusconi. E lo sai con chi ho fatto uno dei miei primi banchetti? Con Giulio Tremonti. Alla convention del Patto con l’Italia era stato applauditissimo, c’era un suo libretto sulle tasse inutili che spopolava, aveva scritto il programma economico contro Berlusconi. Il giovedì prima delle elezioni del ’94 feci un grande gazebo per lui a San Babila. Dopo il voto me ne andai in Inghilterra a trovare mia figlia e lessi che era diventato ministro delle finanze con Berlusconi. Che reazione ebbi? Mi diedi del pirla per averlo aiutato. L’anno dopo fui tra i primissimi a schierarmi con Prodi, quando al palazzo dei congressi di Roma venne lanciato il movimento dell’Ulivo. Il primo a parlare fu Segni, era l’8 marzo, tutto pieno di mimose. Tornai a Milano e feci subito il comitato.” Da allora Orsini è rimasto fondamentalmente un ulivista. Non ha mai fatto grandi distinzioni di sigle nel centrosinistra, ogni altra casacca gli è sempre andata un po’ stretta, dall’Asinello al Pd, passando per i Democratici e la Margherita. La sua vera casa politica è un gazebo al servizio delle buone cause. Se arriva un referendum, se ci sono elezioni di ogni tipo, se si convocano le primarie, se c’è da raccogliere firme, si può essere certi che prima ancora che scatti qualunque direttiva di partito, c’è comunque una persona che a Milano organizza un gazebo. Che fa le pratiche dei permessi, sceglie il miglior posto nel centro della città e ci si piazza dal mattino alla sera. E si può stare altrettanto certi che in linea di massima quel gazebo resterà l’unico del centrosinistra. E anche che l’Orsini si recherà in qualche sede politica a spiegare che se si vuole fare propaganda, se si vuole stare tra la gente a parlare e dare volantini, bisogna riempire di vita quel posto. E che inviterà soprattutto i giovani a dargli una mano. E che quasi tutti lo guarderanno con un po’ di sufficienza. “Questi giovani…”, mormora in questi casi il più pimpante militante della sinistra milanese, “gli interessa il posto nel partito o nelle istituzioni, ma se c’è da lavorare sulla strada non ci sono”. Non è del tutto vero, perché nelle periferie qualche trentenne che fa banchetti (ma non gazebo…) c’è.

Nessuno pensi però che le renitenze alla leva lo disarmino. Lui al gazebo ci va lo stesso. E lì schiera le sue truppe scelte. L’amico Giorgio, dirigente bancario in pensione e, fino a un anno fa, l’inseparabile Pietro, un tassista in pensione pure lui. Più qualche militante sparso, rigorosamente non di partito. E soprattutto Angelica, Rita, Pina e altre signore tutte tra i sessanta e i settanta. Lui le chiama “le mie ragazze”. E, se si deve stare allo spirito, ha ragione. Perché le signore rispondono sempre. Sorridenti ed entusiaste. E se poi il gazebo chiude in orario di lavoro lasciando a Lega e Pdl il dominio incontrastato delle piazze e delle vie, non è mai per stanchezza. Ma perché c’è una manifestazione; specie una di quelle sulla giustizia, che vedono l’Orsini e le sue ragazze sempre in prima fila. “Sono un Pd duro e puro, a me Bersani va anche bene; se sulla scena politica non ci fosse il Pd andremmo sotto zero, però su certe cose è troppo possibilista. Dai, bisognerebbe davvero essere più aggressivi.”

Volete sapere se, dopo un’intera seconda Repubblica passata a rappresentare l’Ulivo e dintorni a Milano, all’Orsini -già grande tecnico- sia mai stato offerto uno strapuntino in segno di gratitudine? Avete indovinato: no. Gli chiesero solo di riempire le liste in posti impossibili nel Patto per l’Italia. Nessun cruccio. Fa politica per altre ragioni. Anche per divertimento. A una festa elettorale si scatenò a ballare con le ragazzine (le quaranta-cinquantenni). Racconta felice di Milly, la moglie, che ogni tanto lo lascia ai suoi gazebo e si gira il mondo. Della figlia Francesca che insegna lingue orientali a Londra, o di Lorenzo, il figlio, giornalista Rai a Genova. E si inorgoglisce della sua diversità. Perché davvero, a Milano, come lui non c’è nessuno. In autunno per capire con chi si fosse schierato l’Orsini alle primarie del Pd, bastava fare la prova del gazebo. In tutta la città ce n’era uno solo, quello per Franceschini. Il suo.

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