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Migranti e violenze. Quando salta il tappo
il Fatto Quotidiano
18 febbraio 2010
Gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia.
Agli occhi dei clandestini non è ingiusto cercare di vivere meglio, ma essere sfruttati o uccisi come bestie
Castelvolturno, Rosarno, Milano. Tre spie. In contesti diversissimi il problema dell’immigrazione si è messo nuovi vestiti. Non i barconi, né le masse di disperati che arrivano. Ma le masse di disperati che già ci sono. Non lo stupro o l’atto di delinquenza. Ma la rivolta sociale. Di gente che la clandestinità o la precarietà obbliga all’anonimato silenzioso. Ogni esplosione ha le sue caratteristiche. Ma alla fine c’è un denominatore comune. La pentola scoppia davanti a una violenza subita da una comunità immigrata, omogenea o frastagliata non importa. Chi è capace di dimenticare i volti disperati, increduli e rabbiosi degli africani sulla Domiziana, dopo la strage di Castelvolturno? La camorra aveva voluto terrorizzare e punire -sparando nel mucchio, peggio che si trattasse di bestie- gli stranieri che si erano messi a spacciare in proprio. Fu la prima vera rivolta popolare spontanea contro la camorra. E la denuncia che giunse da quella manifestazione fu una sferzata in piena faccia per le nostre istituzioni: questo è un paese senza legge, un far west dove chi ha le armi fa quel che vuole. Detto dagli immigrati.
Le armi sono riapparse a Rosarno. Per colpire come leprotti, secondo l’immagine del sindaco Gentilini, che evidentemente è in buona compagnia anche al sud, dei disgraziati ammassati in baracche fetide in cui nessun disoccupato italiano vivrebbe ma che chissà perché dovrebbero bastare e anzi educare alla nostre leggi uomini che si spaccano la schiena per pochi euro al giorno. Che tutti fanno finta di non vedere, che tutti (o quasi) vorrebbero usare approfittando del ricatto dei documenti, dei permessi, della paura. E che vengono scientificamente preparati (basta l’occasione) a quegli scoppi di collera nei quali nulla più si calcola, né il giusto e l’ingiusto, né l’utile e il dannoso. Le armi sono riapparse a Milano. Bianche ma sempre per uccidere. Brandite dai giovani di una delle bande latinoamericane che prosperano impunite nella promiscuità del quartiere ghetto. Che è tale anche grazie a una molteplicità di affittuari italiani fuorilegge. Di nuovo un orrido addensamento urbano, forse non fetido come quello di Rosarno ma che parla un analogo linguaggio di emarginazione e abbrutimento umano, a fare da teatro alla violenza. Violenza tra immigrati, stavolta.
Insomma, sarà pure paradossale, duro da digerire. Suonerà blasfemo sentirselo dire parlando di un’umanità spesso border line rispetto alle nostre leggi. Ma gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia. Agli occhi dei clandestini non è ingiusto, moralmente illecito, cercare di vivere meglio, aggirare vincoli e normative sull’ingresso. E’ ingiusto, moralmente illecito, essere sfruttati o essere uccisi come animali o dovere adattarsi ai nostri codici in quartieri far west. E’ duro accettare che nei posti in cui vivono è comunque la violenza a farla da padrona. Il problema non è dunque la prima, la seconda o la terza generazione. Il problema è il grado di integrazione, il progetto che il paese è in grado di elaborare verso gli stranieri che chiedono di diventare italiani. Nel caso della Lombardia è la capacità della regione più ricca d’Italia di aprirsi a un popolo che, anche volendo attenersi al solo parametro economico, contribuisce per oltre il dieci per cento al suo prodotto lordo.
La Lombardia, appunto. Da qui soprattutto è venuta la spinta ideologica alla Grande Rimozione. All’investimento politico sulla cancellazione del problema. Perché mai fare progetti, immaginare forme di integrazione più efficaci e giuste, se si hanno di fronte masse di delinquenti che, per ogni euro destinato a loro, rubano il pane ai milanesi per bene? Il gioco di presentare gli immigrati come la prova del peccato dell’avversario politico e di scaricare anche adesso sugli “altri” la responsabilità della rivolta esprime per intero un drammatico deficit di cultura di governo. Milano è amministrata dalla Lega da diciassette anni. E da un numero di anni poco minore è governata ininterrottamente la Lombardia. Né è mancato in tanti anni di governo nazionale il tempo per regolare saggiamente (non con “buonismo”, si vuol dire, ma con realismo) una materia così complessa e cruciale. Il guaio è che nonostante i proclami e le ronde la Lega e i suoi alleati stanno dimostrando di essere in Lombardia, sulla sicurezza, un autentico colabrodo. Di fronte alle pressioni migratorie e alle tensioni etniche. E di fronte alla ‘Ndrangheta. Ma questo è un altro capitolo.
Nando
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