Il pranzo è servito. La cooperativa dei carcerati si dedica all’alta cucina

il Fatto Quotidiano
4 aprile 2010

“Quando ricevetti quella telefonata mi sentii correre un brivido per la schiena. Pensai: qui cambia la mia vita. E così è stato”. La telefonata è quella che Silvia Polleri riceve un giorno del 2004 da una cugina che fa l’educatrice al carcere di Bollate, istituto sperimentale alle porte di Milano. Dice pressappoco così: Silvia, tu hai fatto catering per tanti anni. Che ne diresti di rimetterti a farlo con dei detenuti? Qui a Bollate ce ne sono diversi che ci starebbero. Abbiamo un pizzaiolo, un cuoco, due camerieri… Silvia, una signora che sa bene cosa siano le sfide, dai tempi in cui andò volontaria in Uganda con il marito Benedetto, medico pneumologo, accetta anche questa. Nasce così una cooperativa sociale, Abc la sapienza in tavola. Lei presidente, dieci detenuti che ci lavorano con regolare contratto di assunzione. E nel consiglio di amministrazione, con lei, due signori esterni; la Camera di commercio ha spiegato che i detenuti non possono, non hanno i requisiti morali (segue protesta di alcuni di loro…).

La sede è nel carcere di Bollate. Un fisiologico turn-over nei soci, visto che c’è chi entra e c’è chi esce. Ma qualcuno chiede di restare anche dopo il ritorno in libertà. Per affezione e finché non trova un lavoro. “Mi mandano saluti pure dopo; ricevo sms da una quindicina di loro”, racconta Silvia, “uno mi ha anche fatto sapere che ora fa lo chef; mi ha scritto di chiamarlo ogni volta che ho bisogno, che viene gratis. Anzi, se non li sento per un po’ di tempo, mi prende subito il sesto senso che stiano combinando qualche danno”. Ci sono soprattutto giovani nella cooperativa. Ed è un modo per tenerli il più possibile fuori dal carcere, usando le misure alternative. “Perché è proprio vero, mica una leggenda, che il carcere è una scuola di delinquenza. Bisogna vederlo. L’esperienza dei vecchi esercita un fascino maledetto, è come se i loro insegnamenti completassero l’esperienza dei più giovani”.

Ecco così che sotto la guida (e la responsabilità) di questa signora la piccola pattuglia di detenuti esce quasi ogni giorno per le sue occasioni ufficiali. Matrimoni, battesimi, comunioni, convegni universitari, comuni, Regione, aziende sanitarie. Anche ricche case private della borghesia illuminata milanese, visto che ancora un po’ ne esiste, per fortuna. Un bel segno di fiducia, da parte di casate che in queste occasioni esibiscono agli ospiti i pezzi pregiati del proprio patrimonio. Inviti anche da parte di magistrati, che danno vita a piccole potenziali gag (detenuti che servono impeccabilmente i giudici che magari li hanno spediti dentro). Inviti perfino a Palazzo di Giustizia, dove i condannati tornano quasi da signorili professionisti, giacca bianca e bottoni dorati. La cooperativa aveva vinto addirittura un appalto triennale per i corsi di formazione dei magistrati. Non rinnovato per ragioni di prezzo. “Il massimo ribasso no”, spiega Silvia. “Ne ho fatto una questione di principio sin dall’inizio. Io ho accettato la sfida purché non fosse il catering della misericordia. Il nostro è un progetto medio-alto, con la tecnologa alimentare, il maitre, i servizi, lo chef per i nuovi piatti, l’aggiornamento. Se no, quando escono, dove lo trovano il lavoro? Devono abituarsi a farlo professionalmente. Per questo nessun allestimento con le stoviglie monouso, ma piatti di porcellana, non tovaglioli di carta ma tovagliati delle Fiandre. E niente cibi prelavorati. E sa quando mi sento realizzata? Quando, per le dimensioni dei ricevimenti, devo aggiungere qualche studente universitario; e gli invitati, appena sanno chi siamo, mi chiedono chi sono i detenuti. E a quel punto io ridendo gli rispondo come Filomena Marturano: stanno tutti figli a me”.

Il pubblico però non è sempre medio-alto. La cooperativa affronta anche la difficile prova del vitto carcerario. Ha vinto una gara per confezionare i pasti in tre reparti di Bollate. Un’attenzione quasi maniacale all’osservanza dei capitolati (“nessun fornitore tende più a fregare sulla qualità o sulla quantità”). E in un anno un risparmio di 46mila euro. Economie non sempre apprezzate dal Ministero, che ritarda i pagamenti, lasciando senza salario i detenuti. I quali si rifanno con salaci commenti sui reati contro il patrimonio. E poi un servizio interno di pasticcini e pizze da asporto. Che alza la qualità della vita carceraria. I pasticcini e le torte vengono comprati infatti per regalarli nei colloqui con i familiari, specialmente ai bambini. Mentre le pizze vengono ordinate  dalle celle, nelle quali una specie di pony express con carrello le porta soprattutto la domenica sera.

“Sì, la mia vita è cambiata”, ammette Silvia, che per la sua cooperativa ha ricevuto un encomio dalla direttrice Lucia Castellano e dal provveditore regionale Luigi Pagano. “Faccio ore e ore in carcere.  Mi diverto, però. Ricordo quando facemmo un catering per una banca e c’era tra noi un rapinatore di banca elegantissimo, lo chiamavano il rapinatore gentile perché aveva rifiutato i soldi delle clienti che già stavano aprendo le borse, i vostri no, grazie gli aveva detto. Oppure quando andammo in tribunale e un detenuto, prima del ricevimento, volle farsi fotografare davanti alla scritta ‘la legge è uguale per tutti’. Quella volta successe che dopo un paio d’ore diedero la prescrizione a qualcuno nel processo Sme. Appena arrivò la notizia lui mi venne accanto con il vassoio in mano, mi strizzò l’occhiolino, mi diede un colpo di gomito e mi disse visto che la legge non è uguale per tutti? Poi, come niente fosse, si rimise a distribuire i bigné”.

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