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Pio La Torre, il campo della morale
il Fatto Quotidiano
Che cosa avrebbe detto Pio La Torre? Pensiero stravagante. Mi è venuto venerdì scorso mentre il calendario ricordava l’anniversario del suo assassinio. E’ proprio vero: le date non dicono mai le stesse cose. Dipende da quello che accade intorno a noi. Così non sono andato con la memoria alla grande mobilitazione pacifista contro i missili a Comiso. E neppure alla lunga e decisiva battaglia per introdurre il reato di associazione mafiosa o la confisca dei beni mafiosi.
Ma ad altro. C’era infatti la vicenda di Scajola a dominare le prime pagine e – credo per questo – con folgorante spontaneità mi sono ricordato un episodio. Erano i primi anni sessanta e Pio La Torre era già uno dei più stimati dirigenti del partito comunista siciliano alla testa delle lotte di contadini e minatori. Impegnato in comizi, visite ai rioni popolari, viaggi all’interno dell’isola, riunioni di partito, non riusciva a dedicare il tempo che avrebbe voluto ai suoi figli. Ma era lo stesso molto attento alla loro educazione, alle loro frequentazioni; che non si facessero irretire nelle ambigue relazioni che a Palermo mescolavano tutti in una grande melassa di complicità e impunità.
Accadde dunque un giorno un fatto abbastanza normale nelle famiglie del tempo. Il figlio maggiore Filippo, dodici anni, gli diede una notizia: papà, gioco in una squadra di calcio di quartiere, mi alleno con loro da agosto, mi vieni a vedere? Glielo chiese come favore supremo, ben sapendo che le domeniche il padre, da poco deputato regionale, le dedicava al lavoro politico di massa. Pio fu affettuoso: certo che vengo, la politica conta ma non fino al punto da trascurare te, Franco o mamma. Nei giorni che mancavano, però, Pio si rivolse ai compagni di partito per saperne di più di quella squadra. Finché la domenica a metà mattina suonò un compagno a casa per dargli l’informazione completa: la squadra è pulita ma il campo è del boss del quartiere. I campi comunali infatti non esistevano, era tutto privato, come le scuole, come gli asili, proprio per consentire ai clan di lucrare su ogni angolo di vita quotidiana.
Quando Pio lo seppe, prese l’auto e si precipitò verso il campo. Non gli avevano certo detto che suo figlio era a pranzo in casa di un pregiudicato, o che la squadra era di un mafioso. Ma solo che stava giocando, insieme a una ventina di coetanei, su un terreno di proprietà di un boss. Arrivò che la partita stava iniziando, con le famiglie dei giovanissimi calciatori già ammassate intorno alle linee laterali. Ignorò il guardalinee che cercava di fermarlo, entrò in campo, andò verso il figlio, lo prese per mano e se lo portò via senza discussioni. Filippo non fece resistenza. Chiese solo delle spiegazioni. Che ci furono subito. La mafia si combatte anche così, anche rinunciando ai giochi più innocenti. Se lui, come padre, avesse chiuso un occhio, si sarebbe sentito in colpa. E se qualcuno gliel’avesse rimproverato sarebbe arrossito. Di vergogna e di rabbia verso se stesso.
Certo, aggiungiamo noi, mai – di fronte a un’accusa – gli sarebbe venuto in mente di parlare di un piano politico contro di lui, di un attacco di violenza inaudita che coinvolgeva anche i familiari, volto a frugare nelle loro attività più private. Non avrebbe proclamato in tono di sfida “non mi dimetto”. Non avrebbe nemmeno argomentato di non avere intascato una lira. Semplicemente, si sarebbe specchiato nella propria etica politica e avrebbe provato imbarazzo.
Ecco perché accostando quella data simbolica, 30 aprile (1982), e il ministro Scajola e i novecentomila euro in nero – e leggendo la reazione del potente, indignata verso chi si indigna -, mi è venuto in mente, di quel dirigente comunista che ha segnato la storia della lotta alla mafia, proprio questo episodio del tutto minore letto un paio d’anni fa in Pio La Torre di Giuseppe Bascietto e Claudio Camarca. Perché quando l’offesa è grande, infinita, è solo il piccolo dettaglio che può offrirne la misura. E dà il senso dell’abisso.
Nando
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