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La memoria e il terrorismo. Gli occhi dei giovani
Scritto per la "Repubblica" di Genova
Due mattinate di formazione sulla storia del terrorismo a Genova. Dense di immagini, racconti ed emozioni. E un pubblico che sembra una spugna innocente: gli studenti di architettura e dell’accademia Ligustica a cui è riservato il bando del Comune per il monumento alle vittime del terrorismo. Il caso ha fatto sì che questa esperienza unica in Italia si realizzasse nella settimana più simbolica. Quella della visita di Napolitano per i 150 anni dell’unità d’Italia. I quali non sono vuota retorica, ha ammonito il presidente. Trovando riscontro nel racconto degli anni di piombo andato in onda lunedì 3 e giovedì 6 nell’aula Benvenuto di Architettura. Già, perché l’Italia nasce a Quarto, ma poi si fa e acquista forza e senso morale attraverso alcune grandi stagioni (belle o tragiche) della storia. Tra cui quella del terrorismo. Che cosa sa parlarci di Italia unita più degli uomini venuti dal sud per morire qui al nord in difesa di istituzioni comuni, della medesima Repubblica? Anche a Genova successe. Cognomi meridionali (sardi, campani, ecc.) nella storia sanguinosa degli anni settanta. Purtroppo dimenticati nei fatti, come altri cognomi settentrionali. Lapidi sbiadite, scritte inneggianti agli assassini qualche metro sotto o accanto, una certa rimozione di tutto ciò che accadde prima e dopo Guido Rossa, forse perché solo della reazione all’assassinio dell’operaio sindacalista la città può o sa o vuole essere orgogliosa. Genova città “dalla memoria pudica”, hanno detto Stefano Caselli e Davide Valentini, autori del documentario coprodotto dal Comune e da Rai 3, e che con il loro ampio lavoro di scavo condotto per “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli hanno misurato la differenza delle memorie a Torino, Genova e Milano.
Faticoso dire questo, faticoso accettarlo, nella città che per un po’ esorcizzò il fenomeno immaginando che l’inafferrabilità della colonna genovese delle Br fosse spiegabile con la sua inesistenza, con la teoria che gli assassini “vengono da fuori”. Faticoso accettarlo nella città dove dopo l’assassinio di Coco i magistrati in assemblea discussero sull’opportunità o meno di andare ai funerali del procuratore.
Gli studenti che si candidano a offrire alla memoria della città i loro progetti hanno visto e ascoltato senza far domande. Sguardi concentrati, molti appunti. Attentissimi ai filmati, attentissimi alle testimonianze rese senza corazze davanti a loro. A Sabina Rossa che spiegava il bisogno di verità, la necessità di vedere un segno, di trovare quel “riconoscimento” che è condizione necessaria perché non vi sia più il “risentimento”. A Massimo Coco, che spiegava come questa pubblica scelta di ricordare gli permetta finalmente di potere sentire Genova come la “sua” città. Di potervisi pacificare. Cacciare l’oblio, non smarrire il senso di un dramma che vide anche indifferenza e paura, e magari equidistanza quando cadevano gli uomini delle istituzioni. Questo occorre fare soprattutto se è vero che Genova è stata la città delle prime volte. Il primo vagito (la XXII Ottobre), il primo sequestro per piegare lo Stato e le sue leggi (Sossi), il primo omicidio premeditato, anzi, la prima strage (Coco), il primo operaio ucciso (Rossa), i primi effetti dirompenti delle confessioni di Patrizio Peci (via Fracchia). Oggi c’è una nuova “prima volta”. La prima volta che in Italia la memoria di quel passato viene affidata a chi non l’ha vissuto, a chi non porta nello zaino emozioni e pregiudizi. Che rielabora il tempo con occhi vergini per offrire a tutti, attraverso la sua sensibilità, la forza della memoria. E la sua bellezza che si fa arte.
Nando
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