Il carciofo che sconfigge il boss

il Fatto Quotidiano
23 maggio 2010

Quando te lo vedi arrivare con la giacca di pelle nera e la camicia viola sembra un John Belushi di buon umore. Quando ci parli e gratti un po’ sui suoi studi, viene fuori il filosofo. Tesi di laurea sulla modernità liquida, una passione per Sartre e per Gramsci e, manuale di liceo alla mano,  una smaccata preferenza per Platone e il Kant della ragion pratica. Anche se il suo gioiello, il trionfo del suo ingegno, è il violetto brindisino: un carciofo, un particolarissimo carciofo con tanto di Igp, ossia di Indicazione geografica tipica. Il filosofo contadino con sembianze d’attore si chiama Alessandro Leo, ha trentatre anni e fa il presidente della Cooperativa Terre di Puglia- Libera Terra. Nativo di Francavilla Fontana, figlio di un dipendente dell’Enel e di una casalinga, Alessandro ha fatto questa scelta di vita alcuni anni fa. E da due, per mille euro al mese, fa il presidente della cooperativa, sorta su terreni sparsi per la provincia di Brindisi: Torchiarolo, San Pietro Vernotico e Mesagne, che fino a pochi anni fa era una specie di Corleone della Sacra Corona Unita. Poi i clan, almeno qui, hanno preso un po’ di batoste e la situazione è migliorata.

“Lo so, tutti sorridono quando parlo come un innamorato del violetto brindisino. Ma davvero è stata una conquista. Già è considerato ottimo per tutte le lavorazioni industriali, va bene a spicchi e va bene anche per i capolini. In più noi ne abbiamo prodotto la prima versione biologica con l’aiuto del Consorzio di difesa agrario. Ci hanno dato le piantine risanate e da lì son venuti i cardetti”. Sembra di sentir parlare un agronomo e in effetti Alessandro lo è diventato. Anche se batte in lui il cuore del militante: “E poi, lo sai?, il carciofo funziona benissimo per fare le lezioni di antimafia ai ragazzi che vengono da noi in gita d’istruzione. Basta mostrarglielo. Eccolo qui il carciofo, gli dico, tutto chiuso in se stesso, con le foglie che ti pungono appena lo tocchi. Sembra una macchina da guerra. Compatto, pronto a colpire chi si avvicina. Il contrario dell’apertura, di una vita generosa, dell’incontro. D’altronde mi dicono gli amici siciliani che la foglia di carciofo nel loro dialetto si chiama proprio ‘cosca’. Giuro che il messaggio funziona. Poi naturalmente non produciamo solo questo. Abbiamo trentacinque ettari a vigneto, venti a oliveto e ventidue a seminativo, con tanto di grano e pomodori”.

“Siamo in dodici soci lavoratori. Poi ci sono venti lavoratori stabili, che stanno con noi tutto l’anno. E a questi bisogna aggiungere gli stagionali. Nei periodi di punta siamo una cinquantina, di cui il trenta per cento sono soggetti svantaggiati. E’ una bella impresa. Aumentano le bottiglie che mettiamo sul mercato, migliora la qualità dei nostri prodotti. La sfida è chiara: la legalità conviene. Dà lavoro e lavoro pulito, che non ci rischi la galera. Se abbiamo avuto intimidazioni? Certo, ma io le considero un rischio d’impresa. Dopo un mese e mezzo che incominciammo, prima ancora che nascesse formalmente la cooperativa, ci incendiarono i primi vigneti, poi toccò a dieci ettari di grano. E poi i tagli delle tubature, o dei fili portanti. E i furti. Anche un piccolo ordigno esplosivo fatto trovare sui terreni, quasi a intimidire gli operai. Ma spesso queste cose non le denuncio nemmeno più in pubblico, perché ormai ho capito come funziona. Semmai il problema è la mancanza di gente giovane disposta a lavorare con noi. La terra, la cooperativa, non li attirano. Noi soci siamo fra i trenta e i quarant’anni in genere. E per certe mansioni nei vigneti o nei campi di pomodori troviamo solo donne, secondo tradizione. Trionfa la cultura del lavoro a giornata, finisci e poi non ci pensi più, o pensi al tuo fazzoletto di terra. Oppure pesa l’immagine-truffa di tante cooperative, di quelle cantine sociali che hanno tirato bidoni ovunque. Il momento più bello di questa avventura?”. Negli occhi di Alessandro passa un lampo. “Senz’altro il primo vino. Quei vigneti erano dati per spacciati, non trovavamo operai, li prendemmo dalla provincia di Lecce; quando poi vedi il vino comparire nelle guide…Ne abbiamo due selezioni, rosso e rosato, uva negramaro, frutto proprio del vigneto bruciato, che resistette eroicamente. Lo abbiamo chiamato ‘filari di Sant’Antonio’, quasi per gioco. Perché l’incendio avvenne la notte di Sant’Antonio, santo del fuoco e dei miracoli (si era teorizzata l’autocombustione..); e perché il precedente proprietario, un cassiere della Sacra Corona locale, si chiamava Antonio”.

Ora su quei terreni ferrosi, color rosso vivo, “che sembra di camminare su Marte”, arriveranno centinaia di giovani volontari. Cinquecento, in fila per le diverse settimane dell’estate. “E abbiamo dovuto mettere un tetto, perché le richieste erano molte di più. Tantissimi scout, studenti universitari, dal Veneto, dall’Emilia, dal Lazio. Ora siamo in grado di ospitarli. Li metteremo nella villa confiscata al boss, ci hanno dato le chiavi venerdì, dentro i terreni coltivati, stiamo preparando le brandine. Faranno tutti lo stesso programma.  Lavoro al mattino dalle cinque-cinque e mezzo fino alle dieci e mezzo perché poi si muore dal caldo. Al pomeriggio incontri, scambi di esperienze, con noi, altre cooperative, amministratori di Mesagne. E la sera si sta insieme, tanto con gli scout ci sono sempre le chitarre. E si beve sotto le stelle. Se bevono? Ma se ne vanno via delle taniche con questi ragazzi! Senza contare che c’è il mare a pochi chilometri”. Come dire, anche così, che la legalità conviene…

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