La grappa di Marsala e la virtù dello spirito


il Fatto Quotidiano

30 maggio 2010


“E
allora andarono a produrre grappa a Marsala…”. Potrebbe essere la fine (o
l’inizio) di una favola surreale. O di uno sketch satirico, tipo andare a
vendere ghiaccio artificiale agli esquimesi. Invece la famiglia Bianchi partì
davvero un giorno degli anni cinquanta dalla Liguria verso Marsala. E la grappa
alla fine l’avrebbe prodotta sul serio. Si chiamava Leone il pioniere di questa
famiglia con un debole per le cose capovolte. Perché prima che gli eredi
facessero la grappa di Marsala, lui faceva il marsala di Liguria (“la marsala”
si diceva), vendendolo alla Marina militare. Poi una legge stabilì che un vino
con quel nome si potesse produrre solo nelle terre di Sicilia. Rapido consulto
di famiglia: cambiare mestiere o regione? Passò la seconda ipotesi. La Sicilia
di quegli anni non era esattamente una culla di imprenditorialità. Sembrava più
un Eldorado per chi volesse mungere soldi pubblici. Una pacchia leggendaria per
falsi imprenditori e imprenditori di rapina. Leone Bianchi ci andò invece con
lo spirito del toscano di San Miniato che voleva lavorare e avere successo, rifacendo
la rotta dei Mille, direzione opposta a quella scelta allora da tanti spiriti
avventurosi in cerca di fortuna. E’ passato più di mezzo secolo. E Bianchi,
cognome nordico per eccellenza, è diventato un simbolo di questo lembo di
Sicilia, con gli ospiti che inciampano sempre nella stessa domanda: che ci fa
un Bianchi a Marsala? 

A
quel punto Giuseppe, figlio di Leone, e Claudio, figlio di Giuseppe, iniziano a
spiegare. Senza cenni di fastidio per l’altrui monotonia. Giuseppe è un anziano
signore, elegante e dai modi squisiti. Claudio è un giovane entusiasta e gentile.
Tutti e due straripano passione per quello che è stato fatto. Per quel colpo di
genio di fare la grappa qui nel tempio del marsala e del vino dolce, per la
sfida impossibile vinta. Così ti accompagnano con orgogliosa discrezione per
luoghi e macchine e ambienti della loro impresa, la Distilleria Bianchi. Raccontano,
mostrano, chiamano un operaio per aprire questo e quello. Descrivono il
procedimento che porta al distillato, cercano con pazienza di acculturare il
visitatore digiuno di conoscenze vinicole, il quale alla fine capisce con
certezza una cosa sola: che questo è l’unico posto nel centro e sud d’Italia a
praticare una tecnologia che conserva perfettamente i profumi d’origine dei
vitigni.

Claudio
si è laureato in economia e commercio a Pavia; nel maggio del ’92 era
tra gli
studenti che vi ascoltarono l’ultima conferenza di Giovanni Falcone. Ed è
ordinato come una slide aziendale. “Vede,
noi abbiamo tre linee”, spiega, “una è quella che chiamiamo la Bianchi
Arte, e lì
ci stanno la grappa di Marsala, la grappa di moscato passito di
Pantelleria, e
la grappa Cerasuolo di Vittoria. Poi c’è la linea Distilli, e lì ci
stanno i tre
prodotti da monovitigno: nero d’Avola, shiraz e zibibbo. Infine c’è
quella che
chiamiamo la linea giovane, la grappa di Sicilia. Ma attenzione, non
siamo solo
grappa, facciamo anche i brandy, lo scorso aprile abbiamo vinto pure il
massimo
premio al concorso internazionale Acquaviti d’oro, in provincia di
Bolzano.
Certo, la grappa è la nostra scoperta. La nostra intuizione è stata
quella di
farne un prodotto meno duro, più leggero e profumato, per raggiungere
anche un
pubblico fra i trenta e i quaranta e il pubblico femminile. Come è
venuta
l’idea originaria? Semplice. Ci siamo detti: con quest’uva si fa un
ottimo
vino, perché non si dovrebbe ricavare un’ottima grappa dalle vinacce? E’
andata
bene. Già al primo anno abbiamo fatto ottantamila bottiglie. Abbiamo
ottenuto
il riconoscimento ufficiale dalla Commissione europea senza un’amicizia o
una
raccomandazione, lo stesso giorno del mirto di Sardegna, del nocino di
Modena,
del limoncello di Amalfi. Ed è stata in assoluto la mia più grande
soddisfazione.
Il frutto della lezione di mio padre: moralità, professionalità, umiltà e
rispetto, perché queste cose me le ha insegnate lui” dice con la voce
che gli si
incrina d’improvviso.

Ma
i Bianchi a Marsala non sono solo quelli della grappa. Perché se al nord
l’imprenditore mecenate e innamorato della cultura sta diventando una
specie di
panda, loro rappresentano in Sicilia proprio quel prototipo in via di
estinzione.
Gli intellettuali locali riconoscono loro il merito di una grande opera
di
archeologia industriale e artigiana. Avere cioè restaurato con gusto
l’antico
stabilimento dei Florio, la Woodhouse, dove la dinastia tiene anche le
sue
abitazioni. E di avervi realizzato uno show-room animato tutto l’anno da
iniziative culturali. Lì, dietro un bianco muro basso di fronte al mare,
si
apre una corte arabeggiante. “Ecco, questo è lo show-room”, è sempre
Claudio a
fare da cicerone, muovendosi tra nicchie, blocchi di tufo a vista e un
elegante
popolo di bottiglie. “Qui presentiamo libri di autori importanti ma
anche di
giovani scrittori, facciamo eventi di musica e poesia. Gaetano Basile,
Lilly
Gruber, Gioacchino Aldo Ruggieri. A certi appuntamenti vengono centinaia
di
persone. Vede, qua a Marsala una volta si organizzavano solo sagre. Ora
la
città sta cambiando. Arrivano personaggi di notorietà nazionale, c’è il
festival del giornalismo di inchiesta, la settimana scorsa gli abbiamo
offerto
noi il concerto di Paolo Fresu e Bojan Zufikarpasic. E abbiamo un
sindaco che
si è schierato contro la mafia… Ecco, ci piacerebbe essere tra gli
esempi di
una Sicilia ingegnosa, lavoratrice e senza mafia. A proposito, ma
gliel’ho
detto che abbiamo preso pure il marchio dell’amaro Segesta?”

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