Tutti i libri di Cinzia. A Ovada come al Louvre

Il Fatto Quotidiano

20 giugno 2010

“Ma perché vuole parlare di me?”. Imbarazzo. “Ascolti, io non ho mai fatto niente di speciale. Faccio solo il mio dovere”. Imbarazzo bis. “L’unica cosa di cui mi senta orgogliosa è di avere tirato su mio figlio Federico da sola, da quando aveva un anno fino al liceo”. E invece no. E invece Cinzia Robbiano bibliotecaria del comune di Ovada, undicimila abitanti in provincia di Alessandria, è una delle persone sconosciute che rendono più vivibile questo paese, che ne dissodano il senso civico  proteggendolo silenziosamente dai predoni e dalle loro leggi. Una signora elegante e colta che ogni giorno fa funzionare una biblioteca pubblica, con inventiva e cultura più forti della penuria di risorse. Potrebbe essere, per assurdo, una magnifica testimonial del governo dei tagli dissennati. Perché senza mezzi a disposizione è riuscita ugualmente a portare il suo piccolo comune al centro di una rete di relazioni letterarie e culturali di prim’ordine.

Incominciò a lavorare sui libri all’inizio degli anni ottanta. Con due giovani colleghi  per garantire -come prevedeva una legge regionale- il coordinamento tra le biblioteche della zona: acquisti, programmi culturali, creazione di posti-prestito nei comuni più piccoli, e tutto quel che potesse servire a evitare le inefficienze e le duplicazioni di costi tipiche delle smanie campanilistiche. Poi iniziò a occuparsi direttamente della gestione della biblioteca di Ovada. “Trovai una filosofia un po’ particolare. Si accumulavano i fondi per gli acquisti, sembrava quasi che non ci si volesse dannare troppo per allargare l’offerta -i classici, le novità- per i nostri lettori. Non venivano fatti investimenti nelle strutture. Vedevo i comuni della provincia inaugurare realizzazioni da mille e una notte, spazi convegni, ingressi per disabili, tecnologie avveniristiche. Invidiavo Acqui, Tortona, Novi Ligure, Valenza Po. Pensavo che noi non avevamo ascensori, spazi a norma. E allora andavo ai convegni e mi arrampicavo sui vetri per difendere l’immagine di Ovada. Avevo elaborato una teoria, non male a pensarci, secondo cui l’importante non sono gli spazi fisici ma quelli mentali”.

Gli spazi fisici. La biblioteca di Ovada sta in una casa signorile di proprietà comunale ed è intitolata ai coniugi Ighina. Lui medico, lei cugina di Sandro Pertini: donarono arredi antichi e il primo fondo. La sede è condivisa con una sfilza di altre associazioni, dall’Anpi alla Banca del tempo al Centro per la pace. E’ questo l’ambiente di lavoro della signora Robbiano, dipendente comunale. Due ragazze di una cooperativa si occupano a turno del servizio prestiti, lei fa tutto il resto: ordinativi, eventi, amministrazione, promozione, relazioni, catalogazione. Quattrocento metri quadri in tutto. Che non sono proprio un’enormità. Anche perché da quando lei ha assunto la responsabilità della biblioteca le novità (basta vedere le  newsletter) arrivano tempestivamente e i residui passivi sono un ricordo. E in più c’è stata una donazione straordinaria. “Un giorno mi telefona una signora di Como, ma triestina, compagna di scuola di Magris. Mi dice che vuole venire a vivere dalle nostre parti, a Olbicella, che la nuova casa è piccola e i suoi libri non ci stanno. Sono la memoria della sua famiglia, spiega, e vorrebbe tenerli vicini a sé. Chiede se ce li vogliamo prendere. Una richiesta del tutto irrituale. Io però mi incuriosisco e chiedo di vederli. Duemila volumi, la storia straordinaria di una famiglia ebrea. Un tesoro della cultura mitteleuropea e della cultura ebraica, la letteratura delle prime edizioni e/o. Li ho presi al volo, la giunta ha fatto una delibera per accettare la donazione e oggi alcuni titoli siamo gli unici in Italia ad averli”.

Insomma, Cinzia Robbiano sarà pure, come protesta lei, una persona “normale”. Fatto sta che è la smentita di tanti luoghi comuni prodotti, appunto, dalla normalità. Le burocrazie refrattarie alle donazioni, la carenza di fondi come sinonimo di povertà dei servizi, la sedentarietà del lavoro bibliotecario, perfino il bisogno della laurea per svolgere queste funzioni, visto che lei la laurea non ce l’ha, si iscrisse a lingue moderne e poi, data una rapida occhiata all’università, preferì andare a studiare le lingue all’estero. Segreti? “Nessuno. Gliel’ho detto, faccio solo il mio dovere, assecondo le mie passioni. Certo delle linee ce le ho. Siccome spazi non ce ne sono, i nostri incontri con gli autori li facciamo nelle vinerie, sotto le logge, in un teatro. E sono pure più belle e suggestive. Poi puntiamo a fare crescere la lettura tra i bambini. Pensi che in un anno abbiamo raddoppiato gli iscritti fra gli zero e i quattordici anni, anche grazie all’intesa con l’assessorato alla pubblica istruzione. Oggi sono circa ottocento. Abbiamo tanti testi bilingue, italiano e arabo, o cinese o romeno. E sa che i bambini stranieri leggono molto? La figlia dell’imam si è letta a undici anni Salgari, Gulliver e tutti i classici dell’adolescenza a cui i ragazzi italiani arrivano a fatica anni dopo. Cerchiamo di aumentare i lettori continuamente, collaborando con istituzioni e associazioni, comprando libri accattivanti, anche su materie di confine come le nuove famiglie, segnalando e valorizzando quei titoli che non stanno in pila nella grande distribuzione. Il nostro compito è moltiplicare i libri in prestito. Anche perché non ci sono gli spazi per tenerli tutti…”. Sorride, questa signora gentile, che ama la letteratura inglese -tutta, da Shakespeare a Virginia Woolf- e legge Amos Oz e i saggi sulla mafia, che detesta facebook ma sulla rete frequenta flickr, il luogo dei fotografi (gira con una macchina fotografica in borsa sempre pronta per cogliere scritte o immagini). Ricorda con ironia quando i bambini pensavano che fosse “la moglie del bibliotecario”. Spiega che per gli anziani, non potendo offrire spazi, ha inventato il pullman che li porta ogni mese al teatro a Genova, con lei che ce li accompagna ed è felice a non vederli più soli la domenica. Ammette con ritrosia piemontese i successi della sua biblioteca, l’invito in trasmissione da Gad Lerner dopo il ciclo su Tiziano Terzani, l’articolo sul manifesto sul fondo della signora triestina, la dedica di Moni Ovadia su La bella utopia: “A Cinzia che capisce perché sente”.

Dice che le fa piacere onorare con il suo lavoro la bandiera esposta fuori dalla biblioteca. Fare crescere il suo paese e quelli che vengono ad abitarlo. Perché “un bibliotecario è un educatore, mica un distributore di libri”.

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