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Il ragazzo che non ha fatto carriera
Il Fatto Quotidiano
27 giugno 2010
Ora che ha 47 anni e sembra un Lucarelli più in carne ci ride su di gusto. A ripensare a quando, da studente, lo avevano inserito tra i poteri forti del Paese. Lui, ventiquattrenne laureando in legge, figlio di un maestro elementare, arruolato a forza dalla grande stampa tra i rischi totalitari che incombevano sul nostro futuro. Francesco Petruzzella oggi è sposato e ha una bambina. Abita in una casa piena di libri e di tappeti etnici a un passo dalla circonvallazione che porta a Punta Raisi. E ormai, da allora, ha messo su il pedigree del perfetto professionista dell’antimafia. Militanza nel coordinamento antimafia di Palermo negli anni ottanta, laurea in legge, collaboratore di Alfredo Galasso avvocato di parte civile al maxiprocesso, esperto informatico per i rapporti (buoni e cattivi) tra mafia e società civile all’università di Palermo, esperto informatico al palazzo di giustizia. Naturalmente di Palermo. Insomma, un personaggio pericoloso. Anche perché non è finita: sua moglie, Alessandra Dino, docente universitaria, è un punto di riferimento nazionale per la sociologia della mafia, avendo scritto di pentiti, di boss devoti e di donne di Cosa Nostra. Sua sorella Alina, già leader studentesca antimafiosa ai tempi del liceo, lavora in questura come interprete.
Francesco finì sulle prime pagine dei giornali di tutta Italia nel gennaio del 1987. Senza essere nominato, perché nessuno ne sapeva l’esistenza. Era lui l’estensore del famoso comunicato con cui il coordinamento antimafia aveva contrattaccato a testa bassa l’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia”. Articolo pubblicato il 10 gennaio, grancassa di regime e repliche deboli e svagate sui quotidiani del giorno dopo, con Borsellino (messo all’indice dallo scrittore) costretto incredibilmente a scusarsi: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia, ma la gente mi moriva intorno”. Finché, l’11 sera, arriva la decisione sua e dei suoi amici di non perdere più tempo. “C’era un temporale da tregenda. Decisi che bisognava assolutamente fare un comunicato. Ero furibondo con Sciascia, mi ero sentito tradito. Mio padre era un maestro di Racalmuto come lui e mi aveva insegnato a leggere i suoi libri, eccoli qui, guardi, ce li ho tutti in prima edizione. E proprio lui, con il clima che c’era a Palermo, in pieno maxiprocesso, spara una bordata del genere. Ma lo sa che allora dovevamo riunirci con mille precauzioni, quasi in clandestinità? che un poliziotto ci aveva avvertito di stare attenti? Non ci vidi più, così mi misi a scrivere quelle righe”. Francesco si alza da tavola, lascia raffreddare le polpette di tonno al sugo cucinate con arte sublime da lui stesso, entra in quell’archivio cartaceo che è il suo studio, tira fuori il faldone Sciascia. “Eccolo qui”, ride divertito, “guardi i caratteri, sembra quasi un comunicato delle Bierre o un pizzino di Provenzano. Io avevo scritto che Sciascia con quell’intervista finiva nei rifiuti della società civile. Venne Giuseppe De Blasi, oggi commissario di polizia, e mi disse che gli sembrava un po’ forte, così addolcimmo: scrivemmo che per quella volta lo collocavamo ai margini della società civile. Successe lo stesso il finimondo”.
Vero. Si scatenarono i partiti, i sindacati, i giornali, gli intellettuali. Il coordinamento antimafia di Palermo, ossia un gruppetto di giovani ribelli alla mafia che gli aveva insanguinato la città, divenne l’Intolleranza, il Totalitarismo, l’Ordine che pretendeva dalla società dei liberi un conformismo orwelliano. Diventò un potere forte, eguale e contrario alla mafia. Il Giornale di Sicilia, in un eroico slancio di garantismo, pubblicò (per la Palermo di allora) l’elenco di tutti e trecento i soci del coordinamento, nome cognome e mestiere. Ci avrebbe pensato lo stesso Borsellino a ridar loro l’onore una sera di cinque anni dopo, mentre si accingeva a chiudere la sua comoda carriera da professionista dell’antimafia saltando in aria in via D’Amelio. Quando disse nel suo ultimo discorso in pubblico, la voce tesa ed emozionata, che con quell’articolo dell’87 Falcone aveva iniziato a morire.
“Erano tempi durissimi, oggi è un po’ più facile esporsi. Per quel che mi riguarda ho qualche responsabilità in più. Lavoro al palazzo di giustizia. Faccio l’informatico giudiziario -e su questo non le dirò niente- ma mi occupo anche di amministrazione e logistica. Due uffici diversi. Fu Caselli a chiedermi nel ’97 di passare dall’università alla procura, credo che mi avesse sentito parlare a un convegno e avesse ritenuto utili le mie competenze per il lavoro del suo ufficio. Se oggi la situazione è cambiata? Be’, certo che è cambiata, c’è molta più sensibilità di allora. E dei successi importanti sono stati conseguiti. Però io credo che c’entri anche il fatto che pure la mafia è cambiata, e sta sulla città in modo diverso. Non dimentichiamoci che allora per Palermo scorrazzavano a loro piacimento killer come Pino Greco ‘Scarpuzzedda’ o Mario Prestifilippo. Su una moto in corsa ammazzavano quando volevano”. Il ragazzo terribile di allora ha i capelli più radi e si è fatto un po’ più pesante. Ma la passione è la stessa. Libri e carte, carte e libri. Si porta dentro un magone che vorrebbe ricacciare indietro. “Io sono stato tra quelli che allora scelsero di restare a Palermo, perché era nostro dovere. Mia moglie addirittura scelse di tornare a Palermo dopo dodici anni vissuti in Umbria. Pure lei l’ha fatto per dovere. Ma oggi spero che mia figlia appena diventerà adulta se ne vada. Abbiamo perso, anche se ci inventiamo ogni giorno qualcosa per non sentire la sconfitta. Il rapporto tra mafia e politica è rimasto, quello non si spezza, e quello è il cuore del problema.”
Francesco Petruzzella, il ragazzo sconosciuto che scatenò la stampa e la politica e i liberi pensatori con un suo comunicato, rimette in ordine il faldone zeppo di carte ingiallite. Poi esorta l’ospite ad ascoltare bene: la sua gatta di nove mesi, Viola, dice distintamente “mamma”. E’ vero, in braccio alla figlia lo dice più volte. Ma non gliel’ha insegnato nessuno, assicura lui, l’ha imparato così, in casa. Diavolo d’un potere forte….
Nando
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