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Dimissioni mondiali
Europa
29 giugno 2010
Come dice Mou che qualcosa ne capisce, nel calcio, ai grandi livelli, si vince e si perde “per i dettagli”. Per una somma di cose da niente. Di cui sarebbe ingiusto dare la colpa a qualcuno. Proprio come accade in politica. Una regione, un comune, un parlamento vinti o persi per un pugno di voti. Anche l’Italia azzurra, in fondo, potrebbe dire di avere perso per qualche incolpevole dettaglio. La sciatalgia di Buffon, l’infortunio di Pirlo, il fuorigioco millimetrico di Quagliarella. Ma farebbe scandalo. Perché oltre ai dettagli in grado di cambiare l’esito di una partita, ci sono i dati di fondo e di sostanza. La scelta dei giocatori, la confusione tattica, la preparazione psicologica. E il fatto che i dettagli possono semmai contare (e assolvere dalle colpe) quando ci si batte contro avversari di pari grandezza. Altrimenti nisba. Il Brasile, insomma, non può invocare la sfortuna di un retropassaggio o il palo al novantesimo se perde con il Roccacannuccia. Per questo Lippi ha fatto bene, strabene, a dimettersi. Per l’enormità di quell’ultimo posto in un girone da valtour e per lo strazio del gioco in campo. Per questo, pure, ha fatto bene a dimettersi Jean Pierre Escalettes, il presidente della federazione calcio francese dopo l’umiliazione totale, assoluta, inflitta alla sua squadra, resa ancor più penosa dal gesto villico di Domenech di rifiutare la mano all’avversario. Perché lo spettacolo di gioco, di impegno e di cultura offerto dai “blu” ha mandato in giro per il mondo l’immagine di una nazione calcistica ai minimi termini.
Non si capisce perciò, a maggior ragione, la pretesa opposta dello stato maggiore del nostro calcio di rimanere ciascuno ai propri posti. Non una parola di scuse, non un’ammissione di colpa. Anche perché, a pensarci, solo la vittoria (grazie a dettagli fortunati….) dei mondiali tedeschi aveva consentito a questi dirigenti di restare. Altrimenti già nel 2006 sarebbero esistite tutte le ragioni per chiedere il ricambio radicale di un gruppo di persone che, mescola e rimescola, è sempre lo stesso da tempi immemorabili. Quelli in cui nessuno è stato capace di stroncare il tifo violento o le cricche miste di presidenti-allenatori-procuratori; e nemmeno di fermare il prosciugamento pauroso dei vivai. Ora il gruppo, miracolato allora, vorrebbe sopravvivere impunemente al disastro; mentre -come hanno detto, azzeccando finalmente qualcosa, Cannavaro & C.- il tracollo in Sudafrica ha messo in mutande l’intero mondo del calcio italiano. Tira troppo su questi mondiali un’aria che sa di arroganza di potere. E non si allude qui a Fabio Capello. Che non ha mai mangiato pane e simpatia ma a cui non si può negare che la sua squadra abbia preso una batosta epica grazie a un clamoroso “dettaglio”: quello di un gol regolarissimo negato in un momento che poteva rivoltare come un calzino psicologia e slancio delle due squadre in gara. Quanto alla nostra federazione e, ancor più, a quella internazionale. La quale ha scodellato anche lei la sua brava legge bavaglio, decidendo che non si rimandino mai più sui maxischermi degli stadi i replay dei gol. Se no il mondo intero potrebbe vedere e indignarsi per le indecenze arbitrali. E soprattutto potrebbe indignarsi per la (sospetta) pervicacia con cui questa parodia di Onu del pallone impedisce di sottoporre i gol alla prova finestra delle tecnologie. Ecco, se qualcuno deve incominciare ad andarsene, sono questi uomini del mesozoico che temono la verità, temono la tecnologia, temono tutto. Li chiamano, appunto, quelli della Fifa.
Nando
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