Asinara. La solutidine dei cassintegrati

Il Fatto Quotidiano
18 luglio 2010

“Mi sono innamorata del signor Pietro”. Firmato Sandra, giovane signora genovese. L’sms arriva nel pieno del racconto straripante d’ ironia che Pietro Marongiu, operaio sardo, sta facendo delle lotte sue e dei suoi compagni in difesa del posto di lavoro. Lotte che lo hanno portato a vivere in una cella del carcere dell’Asinara (“la cella di un uxoricida”) da cinque mesi. E’ una vicenda finita anche in tivù. Come altre vicende estreme, rappresentate da facce operaie “di una volta” alla Settimana Internazionale dei Diritti a Genova: gente che è andata a vivere sui tetti dei capannoni, sulle gru, o che è ghiacciata nelle notti di neve davanti ai cancelli delle fabbriche. Pietro e i suoi compagni, per protestare contro la perdita del lavoro, per la propria fabbrica (la Vilnys) che chiude nel disinteresse generale, hanno scelto di fare la loro isola dei famosi. E dal 24 febbraio stanno in quella che fu l’ isola penitenziario. Dentro celle in disuso. “Chi perde il lavoro perde la sua libertà, e allora noi ce ne siamo andati simbolicamente in un carcere”. Una storia destinata a bucare il video, ovviamente. Ma da allora, da quando sbarcarono con le masserizie al seguito e il comandante del Corpo forestale chiese loro “chi è il capo?”, da quando i giornalisti sono andati a trovarli e i politici a portare solidarietà, che cos’è successo?

Le celle, quelle, sono uguali: letto armadietto lavandino piccolo bagno. Unica eccezione: con l’estate qualche letto è diventato matrimoniale. Ma gli operai della protesta, senza volerlo, sono diventati un’altra cosa. Si sono trasformati nei menestrelli appassionati della loro lotta. Pietro, due figli e cinquantasei anni, ha molte cose da raccontare. Ora porta la testa rasa. Ma la foto che tiene in tasca di quando arrivò al Petrolchimico di Porto Torres trent’anni fa lo ritrae magro e con la lunga capigliatura, forse la signora genovese ne sarebbe rimasta ancor più incantata. Lui e Andrea Spanu, suo compagno di lotte, di carcere e di tour, un figlio piccolo e che di anni ne ha trentuno, “comunicano” senz’altro più di un conduttore televisivo, e hanno anche più varietà di linguaggio. Immaginifici e carnali insieme, trionfano nelle narrazioni. Però una cosa l’hanno dovuta imparare: sarà pure la società della comunicazione, ma quando arrivano i problemi veri comunicare non basta.


“Ora le racconto la vita che facciamo”, dice Pietro. “La nostra giornata all’Asinara si divide in due fasi. La prima va fino alle cinque-sei del pomeriggio e la usiamo parlando con i turisti delle visite guidate. Io vado giù al molo di Cala Reale ogni mattino, con una vecchia panda bianca che ci è stata data dall’amministrazione. Sempre sia lodata, grande panda, dovrebbe diventare il monumento ai cassintegrati. Prendo il pane e incontro la gente che viene sull’isola. Ci sono anche gli stranieri, quasi tutti sanno che stiamo facendo questa lotta, abbiamo un sito isoladeicassintegrati.com, scritto anche in  spagnolo e in inglese. E poi su face book abbiamo più di centomila utenti iscritti. Vengono su, noi spieghiamo e raccontiamo. Contando quelli portati dalle jeep e dai trenini gommati, incontreremo cento persone al giorno, anzi di più. Poi arriva la seconda fase del giorno, dal tardo pomeriggio alla sera. E allora parliamo con quelli che hanno sull’isola la casa, la villa, e di giorno se ne stanno al mare. Curiosi anche loro di sapere. E ogni volta ricominciamo la nostra storia: la Vilnys, l’idea pazzesca che l’Italia debba rinunciare a fare il cloruro di vinile, noi cassintegrati dalmati, nel senso che siamo siamo centouno, oppure che cosa ci promise Scajola prima di mettersi a fare il capo-condominio. Al mare? No, noi non ci possiamo andare, e questa è la vera tortura, ce ne stiamo chiusi lì in quei novecento metri quadri dove solo cinquanta sono all’ombra, e li riserviamo ai visitatori”. E la sera? Almeno la sera guardano le stelle, gli operai visionari? “Macché stelle”, scoppia a ridere Andrea, “facciamo progetti, commentiamo la nostra storia. Spesso ci facciamo dei video e li mettiamo in rete, anche su youtube. Il fatto è che ormai tutti sanno che cosa facciamo. Tutti ne parlano. E in questo abbiamo vinto. Ma quelli che potrebbero fare qualcosa, i nostri interlocutori veri, no. Loro fermi e zitti, in Sardegna come a Roma”.

Strana vittoria davvero, questa degli operai “grandi comunicatori”. Soprattutto se li mettete a far di conto. A chiedersi quanti ce ne siano oggi di quei centouno cassintegrati. Pietro fa una smorfia amara: “Quanti siamo? Siamo rimasti in quattro, più qualcun altro che lo fa a turno. Ma questo non lo scriva, sennò si semina sfiducia. Anzi, lo scriva, perché la verità bisogna dirla sempre. Sì, fissi siamo rimasti in quattro, anche se spero sempre che a qualcuno venga voglia di unirsi a noi. Ma prima o poi dovrà prevalere il buon senso. Sarebbe davvero pazzesco se rinunciassimo, come paese, a produrre il cloruro di vinile, qua c’è il sale migliore per l’elettrolisi. Si tornerà indietro. E allora chi di noi non è venuto all’Asinara ci dirà che la cosa si è risolta e ci chiederà rimproverandoci che bisogno c’era di fare ‘sto casino. Ci scommetto quello che vuole che finirà così. Comunque tenga, questo è il nostro libro, Cento giorni sull’isola dei cassaintegrati. L’ha scritto Silvia Sanna, tutto in beneficenza. Dedicato ‘a Enrico Mereu, che ha scolpito con leggiadria le nostre anime’, era una guardia carceraria dell’Asinara che ora fa lo scultore. Lo legga. E quando può venga a trovarci”.

Leave a Reply

Next ArticleGenova, la messa dei diritti. Quando i "don" trionfano