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B. e gli studenti di serie B
Il Fatto quotidiano
30 luglio 2010
Sarà stata pure una “battuta paterna” quella indirizzata da don Verzé a Barbara Berlusconi dopo la sua laurea con 110 e lode all’università San Raffaele. Così almeno l’hanno definita in una dichiarazione congiunta i professori Michele Di Francesco e Massimo Cacciari, rispettivamente preside di Filosofia e prorettore vicario dell’università. “Paterna”, ammettiamolo pure. Ma di un padre che ha figli e figliastri, almeno a giudicare dalla lettera-racconto di Andrea Tito Nespola, studente al terzo anno di filosofia al San Raffaele, pubblicata ieri su queste pagine. Perché qui non è in gioco il merito di Barbara Berlusconi, che anzi in questa vicenda sembra più vittima che “colpevole”. E’ in gioco altro. A partire dallo snaturamento di una cerimonia di laurea che si fa evento pubblico non fuori dall’aula, dove ci starebbe tutto (premier, figlia e fotografi, e magari pure il rettore; questione di gusto). Ma dentro l’aula, davanti ad altri studenti che hanno lo stesso titolo per essere trattati con attenzione paterna. In una istituzione che, come dice il suo stesso etimo, non fa differenze, non discrimina. Non dovrebbe discriminare. Soprattutto se aspira a essere considerata parte di un sistema pubblico.
Va detto con nettezza. In una università pubblica o in una grande università privata come la Bocconi o la Cattolica una scena del genere sarebbe stata impensabile, e spero che questo non mi provochi l’accusa di volere “gettare del fango” sul San Raffaele, di cui non è qui in discussione il livello scientifico degli studi ma sì l’idea che vi si coltiva dell’istituzione universitaria. Altrove ogni rappresentante dell’istituzione, per sua dignità (magari malintesa), avrebbe fatto di tutto per mostrarsi inconsapevole o insensibile all’identità della laureanda, per trasmettere ai presenti l’idea di una eguale importanza dei candidati, per non mortificare il rilievo della giornata nei confronti di nessuno e anche per regalare alla candidata Barbara il piacere impagabile di sapere con certezza che il suo 110 e lode era frutto (come sicuramente è stato) del suo impegno accademico e della sua passione per la materia della tesi; e non del suo cognome. Altrove il rettore, per sottolineare la funzione pubblica e lo spirito di indipendenza della sua università, avrebbe evitato di presenziare. Spiegandone prima cortesemente le ragioni al capo del governo (o alla sua segreteria) e semmai complimentandosi dopo con lui al telefono per l’ottimo risultato della figlia. Perché il giorno della laurea è giorno di festa per tutti gli studenti, anche se troppo spesso i docenti (pubblici e privati) lo dimenticano e lo vivono come appuntamento di routine. Basta vedere il pubblico che entra in aula. Arrivano genitori, fratelli e sorelle, fidanzate e fidanzati, amici, spesso i nonni da lontano con i vestiti delle occasioni buone. E’ un momento della vita quasi unico, che corona l’ impegno personale dello studente e gli sforzi economici (talora i veri e propri sacrifici) della famiglia. Anche quando si tratta della “semplice” laurea triennale.
Forse don Verzé e altri con lui hanno pensato che quelle famiglie e quegli studenti si sarebbero sentiti ancor più gratificati dal partecipare di persona alla laurea della figlia del capo del governo. Di potere dire agli amici, dopo quel diluvio di foto sui giornali, “io c’ero”, un po’ come i giovani ospiti del celebre compleanno di Noemi. Contenti di prendersi le briciole di quella che è stata una autentica cerimonia di potere. Invece la lettera di Andrea testimonia, con una misura e una sobrietà impeccabili, che esiste per fortuna anche una variante positiva dell’individualismo: l’orgoglio di sé come persone, portatrici di storie proprie che non possono essere annegate nelle più famose storie altrui. Di storie che semmai accettano, e con gioia, di passare in secondo piano -ne sono stato testimone recentemente- solo di fronte alla laurea di un compagno meno fortunato.
In realtà la “battuta paterna” sarebbe stata tale in altro contesto e magari con altro allievo. Nelle forme e nei modi in cui è avvenuta essa è una foto che va oltre il San Raffaele. Ritrae con spietata esattezza lo stato del paese, con l’idea che esso ha oggi degli obblighi di neutralità di certi uffici e funzioni, con la sua incapacità di rispettare l’eguaglianza dei diritti anche nella forma, con lo straripamento degli spazi del potere. E in più, dopo le umilianti immagini trasmesseci da altre università private (riconosciute), costringe a riflettere se un sistema universitario possa continuare a lungo a conciliare lo scarso spirito e decoro pubblico di un numero crescente di atenei e la natura legale del titolo di studio. Ma questo è un altro capitolo.
Nando
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