Noi, le ragazze della Omsa

Il Fatto Quotidiano

1 agosto 2010

Dici Omsa e pensi donne. Se hai visto la pubblicità delle celebri calze di nylon: “Omsa che gambe” recitavano i Caroselli negli anni sessanta. Se hai visto i cancelli della fabbrica all’inizio e alla fine dei turni: centinaia di donne di ogni età che entravano e uscivano parlando di figli e di lavoro nella più innocente allegria operaia. E’ finita. Nella storica fabbrica di Faenza si chiude. Signori, si va in Serbia. Marina Francesconi e Samuela Meci restano con le loro compagne a combattere gli ultimi fuochi di una battaglia che non si rassegnano a perdere. “Che volessero portare i macchinari in Serbia lo sapemmo con certezza l’11 gennaio del 2009. Erano mesi che andavamo avanti con la cassa integrazione e con i turni di lavoro a quattro ore. Poi un giorno ci telefonò una ragazza da un reparto. La classica soffiata di classe: ‘all’una arrivano i camion e si portano i macchinari in Serbia’. Fu un attimo, partì una catena di sms, già pronta perché qualcosa ce l’aspettavamo. E in mezz’ora ci trovammo tutte davanti ai cancelli”. Il ricordo è di Marina, operaia al fissaggio da quand’era ragazza. Ora di anni ne ha cinquanta. Rievoca con lo sguardo fiero. Fu uno dei presidi operai femminili più lunghi della storia sindacale. Cinquanta giorni e cinquanta notti. “Noi al gelo davanti ai cancelli della nuova fabbrica, dal ‘92 l’hanno trasferita fuori città, tre capannoni vicino all’autostrada. Nevicava, noi che battevamo i piedi per il freddo e a chi ci chiedeva ‘di che cosa avete bisogno?’ rispondevamo ‘legna per scaldarci’. Stavamo lì fino alle quattro di notte con i figli e i mariti che ci aspettavano a casa. E perché? Perché ci sembrava incredibile che si potesse accettare una violenza simile, che di colpo venissero mandate a casa trecentocinquanta dipendenti, che uno facesse i profitti con il nostro lavoro e poi se ne andasse in Serbia. Qualcuno lo fermerà ci dicevamo. La Regione, il governo…Poi l’azienda ha incominciato a promettere di trovare un compratore per lo stabilimento, di fare rioccupare una parte di noi. E qualcuno ci è cascato”.

“E la Cisl gli è andata dietro”, commenta amara Samuela, addetta alle confezioni, distaccata da anni alla Cgil, una decina d’anni in meno di Marina. “Così hanno lavorato a spaccarci, a farci fare la guerra mentre ci stavano licenziando tutti”. Una ferita rimasta nella memoria della pattuglia di irriducibili. Marina lo ricorda ancora quel giorno: “Eravamo al gazebo e a un certo punto abbiamo visto arrivare decine di operaie divise in due gruppi, uno guidato dalla caporeparto l’altro dalla delegata Cisl. E per un’ora ci hanno accerchiato, insultato, ripetendo l’accusa che l’azienda ci aveva scaricato addosso: che per colpa della nostra protesta nessuno avrebbe comprato lo stabilimento, che eravamo noi a fare perdere il lavoro. Non dimenticherò mai quegli sguardi, la crudeltà, sì, la crudeltà di quella scena. Abbiamo saputo addirittura che in assemblea un’operaia aveva proposto il nostro licenziamento e si era presa un coro di applausi. Come stiamo adesso? Come sta chi deve arrangiarsi con settecentocinquanta euro, perché le bollette continui a pagarle, e la roba continua a costare quello che costava prima, non è che diminuisce perché sei cassintegrato. Mio marito fa l’operaio, riusciamo a tenere, ma Sara, nostra figlia, che studia Psicologia a Cesena, già ha dovuto mettersi a fare i lavoretti, non possiamo più aiutarla. Alcune di noi poi non hanno anche lo stipendio del marito, e l’affitto ti porta via già quattrocento euro. Così si è costrette a fare il lavoro nero. Lo abbiamo sempre combattuto, chi l’avrebbe mai detto?”.

 

“Il fatto è che la fabbrica come l’abbiamo conosciuta non ci sarà più”, scuote la testa bionda Samuela. “Gli armadietti, la portineria, la mensa, il certificato di malattia. Eravamo arrivate a duemila dipendenti, avevamo la manicure; venivano in fabbrica la sarta, la magliaia, la guantaia. Era un lavoro alienante ma che dava sicurezza. E nella nostra terra ha dato l’emancipazione a generazioni di donne cresciute nelle campagne. Ora c’è un senso di vuoto, è come se ti venisse meno la terra sotto i piedi”. “E un grande magone”, confessa Marina, le assicuro. Proviamo una nostalgia indicibile a girare nei locali e trovarli semivuoti. Pensavamo che ci avrebbero fatto dei contratti di solidarietà, che avremmo lavorato meno ma che ci avrebbero lasciato il tempo di pensare al dopo. Io non sono una sarta. Ho fatto questo lavoro tutta la vita. E ora è tutto finito”. S

ì, la proprietà lo aveva detto chiaro: andremo in Serbia. E ha mantenuto la parola. Terrà un po’ più in vita lo stabilimento dell’Aquila, perché, così dicono alla Cgil, lì si prendono le provvidenze per le zone terremotate. Poi anche quella fabbrica farà la stessa fine. Ma Marina e Samuela, tutte e due in bianco con gli occhiali da sole sui capelli, non demordono. Samuela manda appena può i suoi comunicati stampa per svegliare le autorità di ogni ordine e grado, denuncia l’accordo di qualche giorno fa con il ministro dell’economia serbo. Un accordo che forse ha aperto gli occhi anche a chi un giorno le ha accerchiate e insultate, chi lo sa.

“Rifarebbe quello che ha fatto?”, ha chiesto a Marina in pubblico la giornalista Giuseppina Paterniti. La platea della Settimana dei Diritti genovese si aspettava un no rabbioso e umiliato. Lei invece ha sfoderato l’orgoglio operaio e ha risposto di sì, che rifarebbe tutto. “Perché difendere il posto di lavoro è una battaglia giusta. Ci mancherebbe altro”. 

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