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Vita da impiegato, tra Parma e Kabul
Il Fatto Quotidiano
8 agosto 2010
Siete anche voi di quelli che fanno battute sugli impiegati del catasto o del protocollo? E allora leggetevi questa storia. Che è la storia di Carlo Rampini e dei suoi ragazzi afghani. Di viaggi impossibili e di richieste di asilo, di ricordi conficcati nel silenzio e di una nuova vita che sfratta la prima. Carlo, anzitutto. Né assistente sociale né psicologo. I suoi studi li ha piantati a quindici anni, una scuola professionale linguistica. “La morosa e lo sport”, spiega lui. Ora di anni ne ha quarantotto e li porta come un atleta. Operaio alla Barilla, poi restauratore in società con un amico, infine la domanda per un posto al comune di Sala Baganza, provincia di Parma, Ufficio per le relazioni con il pubblico. Lo vince e nel ’97 diventa impiegato comunale. Da lì il passaggio all’ufficio protocollo, appunto. Mica per amore di quiete e di carpette, ma per una ragione opposta: la voglia di trovare tempo per la sua nuova passione, dare una mano ai giovani immigrati. Per studiare le leggi che li riguardano, visto che intanto ha iniziato a collaborare con il Ciac, un centro che si occupa di immigrazione, asilo e cooperazione internazionale per il comune di Parma, la sua città. Insomma, da scavezzacollo a volontario, ma di quelli tosti, di cui si parla in giro, che si sbattono sul campo dopo l’orario di lavoro e ci sono anche la domenica e la notte.
Al Ciac si conquista la fiducia dei ragazzi. E un gruppo di afghani gli chiede di dar vita a un’associazione tutta per loro, che li assista più direttamente nelle richieste di asilo e nell’integrazione. Sono arrivati in Italia nascosti o aggrappati ai Tir, o con i barconi disperati, dall’Austria o da Patrasso, dopo viaggi che vanno dai due mesi all’anno. Storie da “Cacciatore di aquiloni” o da “Nel mare ci sono i coccodrilli”. Qualcuno ha già ottenuto l’asilo, qualcuno lo attende con ansia da tempo. Nasce così Asvali, l’associazione di volontariato sociale degli afghani liberi in Italia. Sono più di una ventina. Carlo ne diventa il vicepresidente, anche se è chiaro che il carico maggiore del lavoro finirà sulle sue spalle. La presidenza va ad Alì Shahafiy, un giovane di 26 anni, li fa oggi, e li festeggia doppi perché ha avuto i documenti giusto l’altro ieri. Sono ragazzi che ne hanno viste di tutti i colori. Uno di loro lo facevano ballare vestito da donna, poi i signori locali sfogavano su di lui le proprie libidini. “Deve pensare che sono quasi tutti appartenenti a un’etnia, quella degli hazarà, considerata inferiore, un’etnia di servi, proprio come quella del cacciatore di aquiloni. In un paese dove il diritto non esiste, loro ne avevano ancora meno. Si portano dietro ricordi terribili. In associazione, tra loro, non ne parlano, è una memoria muta e ognuno rispetta il silenzio degli altri, perché sa che cosa è stato possibile. Ma quando incontrano gli psicologi, i medici, gli psichiatri, vengono fuori foto indelebili: la donna decapitata in piazza perché aveva una caviglia scoperta, il traffico d’organi, le torture, i ragazzini fatti prigionieri per trasformarli in kamikaze, lo sfruttamento sessuale o l’esercito che fucila sul posto chi è sospettato di collaborare con i talebani”.
Carlo fa il suo lavoro al protocollo (ora ha dovuto chiedere l’orario ridotto), poi inizia la sua vera vita. Assicurare l’interpretariato a ogni ragazzo afghano pescato mentre balza giù da un camion (“due appena ieri”), andare dai carabinieri e in questura per consentire loro di rispondere, convincerli a fare la domanda di asilo (“molti vorrebbero andare in Svezia, sono convinti che sia l’eldorado per le richieste di asilo e non è vero, chissà chi glielo ha messo in testa”), aiutarli nelle pratiche di inserimento con la prefettura. Nel poco tempo libero studia storia delle religioni. Dice che lui a questi ragazzi vuol bene non proprio come a sua figlia Erica, ma, insomma, “come a dei nipoti”. E assicura che di gratificazioni ne ha tante. L’ultima gliel’ha data un ragazzo che dopo avere ottenuto i documenti è andato in Iran a ricongiungersi con la famiglia. “Mi ha chiamato, suo padre urlava al telefono, io non capivo nulla, erano urla di gioia, continuava a ripetere ‘tashakur, tashakur’, ‘grazie grazie’. Oppure pensi a quello che un giorno, come niente fosse, mi ha detto di averlo capito, che ‘non è importante se sei musulmano o cristiano, l’importante è se sei buono dentro, poi Dio ti aiuta’.
“Il mio progetto più impegnativo arriva ora, forse è quello a cui tengo di più. Un vocabolario dari, l’altra lingua afghana oltre il pashtun. Ce n’è una versione per gli studi universitari, lo usano a Venezia e a Napoli, a Lingue orientali. Ma è troppo costoso e poi non è tascabile. Loro invece ne hanno bisogno per vivere. Allora, con un finanziamento del Forum Solidarietà della provincia di Parma, lo stiamo realizzando noi. Ci riuniamo in sede, che poi è una stanza in via Marmolada; ce la dà un’agenzia per servizi agli stranieri di un ragazzo del Benin che ho aiutato. E loro discutono. Scelgono le parole, le verificano nei loro dialetti, decidono se sono importanti. Vengono tutti, non solo i quattro scolarizzati. Tenga conto che molti di loro hanno imparato a leggere e scrivere in Italia. E’ un grande esercizio di democrazia, sa?, perché loro mica ci sono abituati a decidere insieme. A che punto siamo? A duemila parole, ma abbiamo appena incominciato. Entro un anno saremo a quarantamila. E allora i ragazzi afghani in Italia avranno un regalo: il loro primo vocabolario tascabile”.
Nando
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