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Slow food a Caltabellotta
Il Fatto Quotidiano
15 agosto 2010
Il benzinaio non ha dubbi. “Vada da Mates. In cima alla salita e poi a sinistra”. Cinquanta metri e arriva Mates: Museo delle antiche tradizioni enogastronomiche siciliane. Museo? Ma noi dobbiamo mangiare. Un anziano fa prove tecniche di udito: come? chi cercate? La vita di strada è collettiva, qui a Caltabellotta. Una signora da casa sua sente e si affaccia: Mates, sì, si mangia. Vero: Mates è tutt’e due, piccolo museo e trattoria. Nel locale, dentro il budello di vicoli e cortili che fu il quartiere ebraico della Giudecca, dove le mandorle stanno stese sui teli ad asciugare, trovi tutte la macchine agricole di una volta, dal torchio alla macina. E anche tutti gli utensili, dalla quartara per portare l’acqua sui muli al “bummulu”. Pure gli indumenti ci sono; e i libri di preghiere che usavano i contadini. Entrando a sinistra, foto di Franco Marini e di Leoluca Orlando; e una più croccante di Anna Tatangelo.
Il proprietario ha baffetti sale e pepe. L’occhio gentile e sardonico insieme, squadra gli ospiti e lancia le sue sfide sulla qualità del vino della casa. Rosso freddo. Scruta la mimica dell’avventore e ne commenta le competenze con ironia tagliente. Poi, perché sia chiaro in casa di chi si è arrivati, porta un piatto di pane fatto in casa, ci versa l’olio della ditta (Giudecca, per ribadire il territorio) e incita: ora assaggi questo. Quando il trionfo non ha più increspature, il signore si svela.
“Avevo una ditta di materiale edile con mio fratello, poi gli ho lasciato la mia quota e ho iniziato questo lavoro. Per caso. Degli amici sono venuti a degustare i miei prodotti tipici, chiedendo anche un piatto caldo. E’ stato un successo. Così ho aperto. Era il 2003. Lavoravamo solo su prenotazione perché non sapevo ancora bene come si gestisse un ristorante a flusso continuo. Facciamo tutto in famiglia. Mia moglie Laura assicura la cucina. E mi aiutano i tre figli. Tutti maschi: Giuseppe, Leonardo ed Enrico. Da noi vale la regola del tre. Tre maschi eravamo noi in casa, tre figli maschi ho fatto io. E’ la nostra forza, insieme alla passione. Passione per le tradizioni della terra, ma anche per le imprese nuove”. Già, in effetti Caltabellotta, cittadella arroccata a novecento metri con vista mare sul canale di Sicilia, non è propriamente il luogo dove un consulente di Boston suggerirebbe di aprire un ristorante. Gli abitanti non fanno pazzie per ripassarsi le macine e i bummuli, e i forestieri non piovono a scrosci. Lui, Felice Augello, a cinquant’anni ci ha creduto. “E’ stata una scommessa sulla qualità”; la vittoria di un approccio slow food che ci ha messo un po’ a essere premiato. Finché un giorno non è capitato qui Pippo Privitera, responsabile siciliano del movimento di Carlo Petrini, e ha praticamente ordinato che il locale venisse inserito nella guida. “Poi conta la cortesia. Io non riesco a mandar via nessuno. Anni fa a Pasquetta venne qui una coppia che parlava inglese verso le tre e mezzo. I miei figli la mandarono via. Io mi chiesi dove avrebbero trovato da mangiare. Li richiamai. Be’, lui era Steve Buscemi, l’attore italo-americano. Gli chiesero tutti l’autografo. L’anno dopo tornò a trovarmi”.
Una anomalia. La tradizione che si fonde con le vendite online, le competenze raffinate sulla raccolta delle olive biancolilla (“prima decade di ottobre, lì è il segreto”) che si mescolano all’agilità nel marketing (fiere a Milano, Verona e all’estero). Felice Augello scommette sul futuro della Sicilia, anche di questa parte meno generosa di reddito e turismo. Mentre economisti e demografi lanciano l’allarme sul nuovo esodo dal sud verso il nord e verso l’estero, lui con calma e senza eroismi esplora le vie dello sviluppo sostenibile, quelle che un dì apparvero utopie davanti ai grandi (e disastrosi) investimenti della grande industria assistita. Olio dai suoi terreni, marmellate fatte direttamente, vino dal vigneto di un amico medico. E ora il salto al bed and breakfast.
Al quale qui non crede proprio nessuno. Tant’è vero che la casa a più piani per tirare fuori le sette stanze e i locali comuni gliel’hanno venduta a ventitremila euro. Lui invece ci crede (“credo sempre nelle cose che faccio”). Per una ragione semplice: “Sciacca si sta sviluppando: il porto, i pescherecci, i rapporti con le coste africane. E gli alberghi, le terme, un enorme campo da golf. Di lì a qui ci sono venti minuti d’auto. Guardi qua sopra che meraviglia di paese. Creiamo ospitalità e arriveranno anche da noi. Ci metto i miei risparmi, ci mettiamo anche il lavoro delle braccia mie e dei miei figli. E cerchiamo i mobili, devono essere i classici mobili dei nonni, se ci metto qui gli ikea facciamo ridere. Chi mi finanzia? Nessuno, tutto da soli”. Lo sguardo diventa sfuggente, quasi pudico. “Per non dipendere da nessuno”, aggiunge. Ma possibile che non abbia chiesto soldi pubblici? Proprio in Sicilia, dove si è accumulata una sapienza antica nel chiederli e ottenerli? L’imprenditore che accompagna il forestiero lo prende da parte e spiega sottovoce: “Qui il sistema funziona così: chi chiede soldi pubblici in genere lo fa perché una parte se li vuole mettere in tasca. Mentre chi pensa davvero e solo a fare impresa, se può evita; troppi obblighi, compreso quello di dovere ringraziare un politico”. Felice Augello fa parte di questa seconda categoria. Libero pioniere del terziario moderno a novecento metri d’altezza, sotto le rocce che sfidano gli equilibri della fisica. Perché anche le formiche nel loro piccolo non ci stanno.
Nando
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