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A lezione dal “prof” ideale
Il Fatto Quotidiano
10 ottobre 10
Dove lo metti suona. Così dicono al sud delle persone come lui. In effetti qualunque cosa si impegni a fare, Giuseppe Teri, insegnante catanese accasato a Milano, ci mette l’anima. Con la passione di un neofita e la perizia di un cane da tartufi. Abilissimo a scovare tra le pulsioni e le mode del momento i segni ancora incerti della storia che arriva. Nei giorni in cui nelle città esplode la contestazione del modello Gelmini è giusto sfogliare l’album delle figurine messo insieme in anni di peregrinazioni per le scuole. Giuseppe Teri è lì nelle prime pagine. L’insegnamento come unica ragione di vita alla faccia dei milleseicento euro al mese, che a Milano bastano appena per condurre una vita decorosa. Gli studenti e le studentesse prima di tutto. Con la disponibilità a farsi coinvolgere nelle loro esperienze di vita. Il rifiuto netto, quasi sdegnato, di quella idea che “mica sono il loro confessore”, “mica sono il loro padre o fratello maggiore” con cui spesso si cerca di difendere i confini di una professionalità docente sempre a rischio di essere annacquata. Perché venendo da Catania il professor Teri sa bene quanto possa contare nella vita di un adolescente trovare un punto di riferimento, un adulto con cui dialogare. Gliel’ha detto anche qualche genitore: “Mio figlio prima ciondolava per casa e ora finalmente lo vedo con dei progetti in testa”. Per non parlare dell’incontro “con mondi che nemmeno conoscevano, pensi soltanto alle visite ai luoghi di accoglienza per gli immigrati”. Delle sue ragazze e dei suoi ragazzi ha il numero di telefono, conosce con discrezione le situazioni familiari. E quando il suo intuito gli fa capire che società e media se li stanno “lavorando”, massaggiandone gli egoismi, le intolleranze, l’istinto di prepotenza o anche il qualunquismo, allora interviene. Alla prima avvisaglia si ferma e discute. Poi progetta. E si inventa di tutto, senza ripetersi mai. Ambiente, razzismo, pace, droga, lavoro nero, Olocausto, diritti, mafia, informazione. Queste ultime due questioni, poi, le ha nel dna, come si dice. Arrivò a Milano negli anni ottanta con ancora negli occhi lo sgomento e la rabbia per l’assassinio di Pippo Fava, il direttore dei “Siciliani” ucciso dal clan di Nitto Santapaola nella Catania dei famosi Cavalieri del lavoro. Con il mensile di Fava Giuseppe Teri aveva collaborato immaginando di contribuire a cambiare la sua città.
Invece da allora lavora tra generazioni sempre diverse immaginando di cambiare Milano, dove le luci accecanti dei miti del successo e il degrado delle periferie si mescolano in una poltiglia culturale insidiosissima. Testimonianze a scuola, seminari, convegni, presentazioni di libri, viaggi di interesse civile, teatro e cineforum. Occhi puntati in tutte le direzioni: Amnesty, Emergency, Libera, Casa della Carità, Associazione dei rifugiati politici, Naga, magistrati, Comunità Sant’Egidio. Un elenco infinito. Sempre con una regola: serietà, serietà, serietà. Sì, perché se qualcuno immagina Giuseppe Teri inseguito da una corte rumorosa di studenti che non vedono l’ora di “far casino” in nome di nobilissime ragioni, si ricreda. Benché vesta con camicie fantasiose al limite dell’incredibile, con una minuscola chitarrina all’occhiello della giacca, il professore ama la serietà. Bandisce la superficialità dal suo lavoro (si documenta su tutto con spirito certosino), dall’elenco dei suoi invitati (riconosce i tromboni in un minuto) e anche dai modi degli allievi. E’ rimasta celebre una grande assemblea sui diritti umani di due anni fa. Lui e i molti colleghi e colleghe del Coordinamento per i diritti e la cittadinanza attiva (una decina di scuole) coinvolsero in un progetto di formazione circa ottocento-novecento studenti milanesi. Occorreva chiudere quel ciclo con un incontro cittadino. Non essendovi sedi gratuite adeguate alle dimensioni, venne chiesta l’aula magna dell’università della Bicocca. I professori dell’ateneo presenti restarono di stucco. Immaginavano di assistere al consueto spettacolo: “ragazzi per favore state buoni”, urla, audaci giochi di società e andirivieni dall’aula. Ma dovettero ricredersi. Un esercito di adolescenti disciplinato e preparato stette per più di tre ore in silenzio religioso ad ascoltare Moni Ovadia, Valerio Onida, la ricercatrice sinta Eva Rizzin e lo scrittore rumeno Mihai Mircea Butcovan.
La sua scuola è questa. Al Virgilio, il liceo classico dove insegna, basta guardare in faccia i suoi ragazzi quando gli fanno capannello intorno. Lo ascoltano con rispetto e diresti con affetto; comunque con la certezza da avere davanti qualcuno che crede in quello che fa e soprattutto nelle istituzioni. Ormai è conosciuto e riconosciuto pure fuori dalla sua scuola. Giungono nelle associazioni e in università studenti che narrano del professore di liceo che sotto le inflessioni catanesi coltiva il rigore che fu nordico; e che tenendo la politica dei partiti fuori dalla porta, insegna a stare dentro i problemi civili e sociali del mondo. “E’ stato bellissimo sapere che Camilla, una delle mie migliori allieve, appena diplomata se ne è andata per un mese in Africa a insegnare, dicendo che era la logica conseguenza di quello che avevamo fatto insieme”, confessa orgoglioso. Il fatto è che migliaia e migliaia sono i Giuseppe Teri sparsi per l’Italia, ossatura di una scuola che chiede rispetto. Con la scuola non si mangia, ha sentenziato il ministro Tremonti. E rispondergli è impossibile. Provate però a vivere in un paese in cui non ci siano questi pubblici nullafacenti…
Nando
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