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Vite di poco valore. Albanesi e non (pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” di oggi)
E dunque chi è giusto che ci “guadagni” sulla disgrazia? La famiglia dell’operaio morto o l’imprenditore nel cui cantiere si è consumata una delle tre o quattromila morti “bianche” all’anno del nostro paese? La sentenza di Torino che ha riconosciuto ai familiari di un operaio albanese un indennizzo pari a un decimo di quello che sarebbe spettato ai familiari di un suo compagno italiano, apre la porta a questi surreali interrogativi. Purtroppo il giudice civile che ha emesso la sentenza, rifacendosi ad altra (e più eccellente) sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dato la sua risposta. Senza volerlo, per applicare rigorosamente la giurisprudenza. Ma l’ha data: è più giusto che ci guadagni l’imprenditore. Il principio in fondo è semplice. L’indennizzo deve essere perequato al “reale valore del denaro nell’economia del Paese ove risiedono i danneggiati”. E dunque, visto che c’è la crisi, non graviamo sulle imprese imponendo loro somme incongrue, in Albania si campa con molto meno che da noi. Lì da loro già sessantaquattromila euro sono un tesoro da farsi ricchi a vita. Mi torna in mente una discussione sentita da ragazzo dopo il terremoto in Belice. Un brillante commensale sosteneva che non bisognasse ricostruire Gibellina e Santa Ninfa con case belle e moderne, che nel Belice erano abituati a vivere in case di pietra e paglia e il terremoto mica doveva diventare una fortuna. Che si ricostruisse assecondando il loro stile di vita. Ecco, i genitori di giovani immigrati albanesi non si mettano in testa che un incidente sul lavoro del proprio figlio possa trasformarli in paperoni.
Peccato che questo ragionamento, che cerca -conveniamone- di seguire quel filo di logica follia che attraversa la giustizia dai tempi dei babilonesi, non tenga conto di una cosa. Che l’indennizzo viene imposto al datore di lavoro a causa di una sua mancanza o colpa. Per riparare a un suo comportamento od omissione che ha prodotto, magari in concorso con la vittima (come in questo caso), la morte di un uomo. Per ricordargli che la morte di un dipendente non è piccola cosa, nemmeno se il dipendente è immigrato e viene da un paese povero. Per sancire che in questo paese la tutela della sicurezza dei lavoratori non è più un optional, al punto che quella delle morti in fabbrica e nei cantieri è diventata quasi la più importante battaglia personale del presidente della Repubblica. Ma perché questo sia chiaro, occorre anche che la somma che l’imprenditore è chiamato a versare come indennizzo non sia mai ridicola. In fondo è questa consapevolezza, la famosa “certezza della pena”, che può svolgere una funzione deterrente rispetto ai troppi cinismi o alle troppe indifferenze che punteggiano la vita di aziende, cantieri e officine. Altrimenti il datore di lavoro si potrebbe convincere, per assurdo ma non troppo, che nell’epoca della globalizzazione sia meglio attirare manodopera straniera, prendendola da paesi dove si campa con un dollaro a settimana. La vita di quegli immigrati non costerebbe praticamente nulla, e d’altronde mica ci si vorranno arricchire i genitori se gli capita una disgrazia al figlio, giusto?
Vedete un po’ che succede quando la ragioneria, questa meritoria disciplina, trionfa sulla cultura civile. Quando la giustizia è “civile” nel senso che non è penale. E vuole calcolare il valore della vita stando ben attenta che nelle tragedie non ci sguazzi, non ci marci il più debole. La Cassazione di dieci anni fa…Esperti giuristi hanno notato che altra sentenza della Suprema Corte, a noi più vicina, distillata un anno fa, recita principi opposti, sostenendo che “la tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria”. Una curiosità: come si sceglie tra le sentenze della Cassazione?
Nando
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