Consigliere Rosario Pantaleo

Il Fatto Quotidiano

5 dicembre 2010

Quando è diventato consigliere comunale niente tappi di spumante per aria, niente parenti avvinghiati in foto con sorriso d’occasione. Eppure per i Pantaleo, arrivati a Milano dalla Puglia nel dopoguerra, era un traguardo prestigioso. Il figlio del barbiere-fattorino di periferia che entra a palazzo Marino, dove è stato eletto anche Silvio Berlusconi. Invece nulla. E non per sobrietà. Semplicemente perché la notizia andava tenuta nascosta. La mamma di Rosario, la signora Elisa, non avrebbe gradito affatto. Nutriva un disprezzo sconfinato per la categoria dei politici e vedere in quella veste il figlio le avrebbe potuto procurare un infarto da vergogna. Tutti zitti, dunque. E via di casa i giornali con la notizia. Era il settembre del 2003. Due anni prima Rosario Pantaleo si era inaspettatamente piazzato a ridosso degli eletti della neonata Margherita. Tutti voti raccolti intorno alla sua militanza sociale nel quartiere di Baggio, solide tradizioni di sinistra ma anche problemi di droga e di emarginazione sociale. Poi nell’agosto del 2003 era morto un famoso consigliere, Vincenzo Bianchi di Lavagna, ed era toccato a lui subentrargli. Tre anni di consiglio. Abbastanza per farsi notare per la serietà con cui seguiva le questioni sociali, per l’atteggiamento umile e compito, e per i proverbiali panciotti e gilet dalle fantasie più inverosimili su un fisico mingherlino. Oltre che per quella competenza da critico musicale così eccentrica per l’ambiente in cui era capitato.

Finito il mandato, Rosario si ritrovò al punto di partenza. Non era uno sgomitante di apparato, non si era votato ad alcun santo protettore, e che avesse un grande seguito nel suo quartiere apparve in fondo secondario. Se ne tornò al consiglio di zona, accolto come un trionfatore dai concittadini di Baggio. E da lì riprese la sua militanza sociale, la stessa che ne fa altra cosa dai politici aborriti da sua madre. In effetti quando si parla con tanta enfasi del radicamento della Lega, basterebbe inviare in viaggio di studio un po’ di dirigenti di partito da Rosario: per capire che we can, che non è affatto impossibile avere lo stesso seguito di strada delle camicie verdi. Basterebbe fare come lui, questo normalissimo perito elettronico di cinquantatre anni e con due figli, mandato a casa con tanti saluti dall’azienda in crisi. Che da poco campa come collaboratore di un consigliere regionale, Carlo Borghetti, che ha voluto aiutarlo ed è stato ricambiato con un’impennata di produttività politica. Se chiedete a Rosario che cosa faccia per il suo quartiere, vi snocciola un elenco da indigestione. Il lavoro nel consiglio di zona, certo, dove spiega con orgoglio di fare passare spesso le sue proposte e mozioni con il sostegno di destra e sinistra, e mica perché gli piacciano gli inciuci, ma perché ha la forza del buon senso. Poi l’impegno da redattore ne “Il Diciotto”, il mensile del quartiere, diffusione di novemila copie, mica i quotidiani clandestini  di cui vedete le prime pagine sui tiggì notturni. E infine, ma soprattutto, ciò che si inventa lui personalmente. Dibattiti, incontri serali, corsi di formazione con l’associazione Rete Baggio. Ospiti importanti (da Gherardo Colombo a Valerio Onida) portati in periferia a gareggiare con le trasmissioni televisive da grandi ascolti. E centinaia di persone attente riunite in grandi sale. Droga, informazione, sanità, minori, giustizia. Poi i banchetti per la legalità. Ma anche l’organizzazione di concerti per portare nella solitudine delle notti di Baggio la bellezza e l’allegria della musica. Rassegne di un mese, ogni sabato per quattro settimane, in primavera. Costo (sostenuto da una cooperativa, la Ferruccio Degradi): ventimila euro tutto compreso. Riuscendo ad avere cantanti e gruppi grazie al suo prestigio personale, di critico che scrive (ma ve lo confessa solo sotto tortura) su “L’isola che non c’era” e sul “Folk Bullettin”.

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