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L’intellettuale vestito da vigilantes
Il Fatto Quotidiano
19 dicembre 2010
Vatti a fidare delle guardie giurate. Ti illudi che siano una delle poche certezze rimaste: basso titolo di studio e vocazione al rambismo. Una pistola nella fondina che ti rende più forte e temibile degli altri, la frase sempre pronta per ogni abuso, “non si alteri, non alzi la voce”, il sogno di stendere un rapinatore in un conflitto a fuoco. Con il rovescio della medaglia che ogni tanto arriva sui giornali. La soffiata ai rubavalute, la finzione prudente nel momento del pericolo. Poi d’improvviso conosci il Mario e ti ritrovi con l’ennesima certezza in meno. Il Mario di cognome si chiama Uccella e vive a Reggio Emilia. Fisico da lottatore, andatura da peripatetico, sguardo dolce-ironico. Orari sballati rispetto ai nostri. Turno al pomeriggio e infinite veglie notturne: per dedicarsi a leggere, navigare e scrivere a sua volta.
Origini meridionali. Ecco, qui lo stereotipo funziona da dio. Mario è di Napoli, e l’accento ancora lo tradisce. Ma non arruolatelo negli abbandoni scolastici. Figlio di un autista dei mezzi pubblici, ha studi di rango alle spalle. Un ottimo liceo scientifico, il “Gramsci” di Parco San Paolo (“eccellevo in storia e storia dell’arte”), architettura alla Federico II, anche se gli è mancato il rush finale, letture poliedriche che lo mettono in grado di discutere e sciorinar battute intinte nelle più varie discipline. Nostalgia di Napoli? E come non averne, infradiciato nelle umide sere padane? Come non averne guardando sopra di sé quel bel cielo bianco sporco compatto, lui nativo di Fuorigrotta? Ma la nostalgia è anche della gioventù, di una stagione lontana ormai più di due decenni. Mario è sbucato nel ’77 appena adolescente. Non c’è quasi occasione, brandello di dialogo in cui quella storia di rabbie e di speranze che deve essergli sembrata bella e romantica non rispunti fuori. Il mito dell’eguaglianza, le lotte studentesche. E le compagne di scuola e di università, che di quel clima romantico devono avere fatto parte integrante. Basta vedere la tenerezza delle righe che ogni tanto dedica a loro, bellezze lontane che non vorrebbe mai saper sfiorite, quando interviene su un sito, su un blog, lui che setaccia la rete come un rabdomante tutti i giorni, alla ricerca di articoli, post, foto e filmati da consigliare ai suoi affini e sodali di passioni civili.
Da Napoli alla fine se n’è dovuto andare. Niente lavoro. “Mica potevo offrire alla mia ragazza, che poi è Alda, la mia attuale moglie, un destino di precarietà. Lavoravo in nero in un’agenzia di patenti nautiche, e ci facevo pure l’istruttore. La domenica andavo al parco giochi, arrotondavo alle giostre. Si vede che il lavoro mi attendeva a Reggio Emilia”. Una cooperativa di servizi, con un ramo vigilanza. Non si è fatto venire la puzza al naso, si può benissimo fare la guardia giurata anche dopo avere studiato architettura. Si può mettere quella divisa blu così simile a quella dei carabinieri in ordine pubblico senza provare imbarazzo. Anche perché la frequentazione ravvicinata con la sua terra gli ha reso ben chiaro che la vera rivoluzione oggi (anzi, da tempo) è fare trionfare in questo paese la legalità, dovunque possa essere difesa. Anche per questo Mario Uccella legge e studia con avidità tutte le notizie che arrivano su affari e delitti della camorra e sulla lotta dello Stato contro i clan. A volte i suoi post sembrano venire da un topo di biblioteca assai speciale, di quelli che divorano tutti i libri su mafia, trame, massoneria, corruzione. Nulla gli sfugge. Perciò eccolo sempre pronto a correggere e consigliare i suoi interlocutori: quello è il fratello, hai sbagliato; quello è stato prosciolto, attenzione; quello c’è dentro fino al collo altro che coincidenza, ma ti sei dimenticato di quella volta che? Tenacemente, fieramente ostile ai poteri spregiudicati che infestano il paese, Mario di puro istinto (“sono un complottista”, ride) fu il primo a mandare in rete l’opinione che dietro quella storia di “papi” e di Noemi doveva esserci un retroterra intriso di vicende giudiziarie locali, se no i conti non gli tornavano.
Poi, quando meno te l’aspetti, ti piazza su un post a mo’ di commento, e con perfetta pertinenza, le parole di una vecchia canzone. Il testo italiano. Ma anche il testo inglese, integrale, e mica perché vada su google (“ci vado solo quando ho dei dubbi”), ma perché li sa tutti, quei testi, puro patrimonio personale. Insomma, gli piace scrivere. Forbito, elegante. E non solo in rete. Ci sta provando anche da romanziere, da giallista. Fin qui di libri ne ha scritti due, “Il tempo dileguato” e “Fino alla fine del mondo”. Mallopponi di asciugare, quattrocento e seicento pagine (“per ora, devo evitare di arrivare a duemila”) ma con un certo stile sagace e irruento. Triangoli amorosi imbevuti della più recente storia civile, o la trama infinita e poco fantascientifica dei misteri italiani (“all’Addaura e via D’Amelio però mi fermo”). Libri che autostampa: “le case editrici volevano farsi i soldi per stamparmeli, allora ho deciso che me lo facevo io e costava di meno”. Li manda in giro alle persone che stima. Ma dà anche licenza di scaricarli dal suo sito, del primo ne sono già stati scaricati più di mille. I lettori in genere apprezzano. Quando poi sanno che chi ha allestito triangoli, trame gialle e trame nere, in quell’italiano perfetto e sornione (o implacabile, dipende) è una guardia giurata, ci restano di sasso. Strano paese questo in cui le persone colte fanno le guardie giurate e fior di analfabeti violentano l’italiano dal governo. Per favore, ridateci una certezza.
Nando
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