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Da Milano al Mozambico. Professione utopia
Il Fatto Quotidiano
9 gennaio 2010
Dice che certe cose si respirano in famiglia. Che è l’educazione. E in fondo se Elena oggi aiuta e insegna e organizza e progetta e amministra e sfida pure la storia del Mozambico tutto questo deve avere una qualche origine nella casa di Porta Romana a Milano dove è nata e cresciuta. A quella casa si deve se, sognando solidarietà e uguaglianza, alla fine della scuola ha deciso che se ne sarebbe andata per il mondo ad aiutare chi aveva più bisogno di lei. Se con la Bocconi a settecento metri è andata a Roma fare un’altra economia, una di quelle lauree che non servono a niente ma santo cielo perché non le chiudono: economia per la cooperazione internazionale e lo sviluppo. E se mentre la faceva, già si cimentava con la pratica: segretaria e tesoriera di una organizzazione no profit di solidarietà con il Congo e l’Uganda. Missione, trovare e spedire biciclette per le periferie di Kinshasa, fare centri per orfani e recuperare i bambini-soldati. Da allora è stata una successione senza sosta di viaggi e soggiorni per associazioni di solidarietà internazionale. Cuba, Trinidad, confine Messico-Stati Uniti, Tripoli per il campo profughi palestinese di Nahr-el-Bared. E Honduras, nel quale a ventitre anni è stata referente per l’ufficio centrale per la cooperazione nel Centroamerica del Ministero degli Esteri (in Guatemala) e dove ha avviato talmente tanti progetti da farci aprire un ’in Guatemala) nuovo uff ufficiogoverno insieme a tanti altrisenza ospedale, senza medico. e ha travolto i terreni coltivati. e,altro ufficio centrale, poi chiuso dal governo Berlusconi. Situazioni a rischio affrontate con l’occhio sognatore dell’utopista di professione e intanto studi e perfezionamenti perché certe cose non si fanno con approssimazione, basta con i dilettanti allo sbaraglio. Corso di valutazione dell’efficienza dei progetti di cooperazione a Firenze, un anno di London School al dipartimento di Politiche sociali. Morale: a ventotto anni la cooperante italiana Elena Gentili ha fatto e visto quello che un normale sessantenne nemmeno sa fantasticare.
E da un anno è in Mozambico. Coordina un “programma multisettoriale di cooperazione decentrata tra la provincia di Trento e la provincia di Sofala”. Alloggio a Caia, casa per sei cooperanti, a 430 chilometri da Beira, seconda città del paese, primo grande centro abitato dove andare in jeep per mille incombenze: logistiche, sanitarie, di approvvigionamento, di relazioni istituzionali. Un posto dove se salta un cavo elettrico stai più di un mese senza mail e cellulare, tagliato fuori dal mondo. Per fortuna José Antonio, il responsabile dell’area delle costruzioni, dieci anni a Cuba, l’ha aiutata ad ambientarsi, “mi fa sempre capire una cosa in più”. Obiettivi: istruzione e politiche di prevenzione, con una mortalità infantile tra le più alte al mondo. Ma anche acqua, sviluppo rurale, appoggio istituzionale. E infrastrutture. E microcredito. E radio comunitaria. Insomma, rifare il mondo con chi lo vive. Ecco, se qualcuno immagina la cooperazione internazionale come una grande epifania di denaro inutile, o utile per i dittatori, qui ha proprio da ricredersi. La provincia di Trento non lo permetterebbe, e gli operatori scelti, quanto a produttività, farebbero invidia a un privato. “Lo so di essere fortunata. Il mondo della cooperazione lo conosco bene, ci sono dentro da otto anni. E ho visto anche le cose meno piacevoli. Quasi non lo credevo più possibile. E invece mi pare di stare in una bolla felice, è esattamente la cooperazione come la sognavo io, è concretizzare quello che si studia all’università. Non c’è un modello di sviluppo da imporre, ma si crea un processo, tutti insieme. E il finanziatore non vuole risultati subito ma segue lo sviluppo dei progetti. Per me, come Elena dico, è la cosa più bella che mi potesse capitare”.
Non si muoverebbe mai dalla sua postazione, Elena. Pensa solo alla sua missione. Per questo dopo il portoghese sta imparando anche il sena, la lingua locale. Nessuna distrazione. Infatti in Italia è stata richiamata d’urgenza a viva forza in questi giorni contro la sua volontà. Visite mediche. Una notte si era ritrovata un osso della spalla fuori posto, troppi pesi spostati negli ultimi giorni. E aveva rimediato come ha imparato a fare. Senza fronzoli. Un bell’urto contro la parete e l’osso va a posto. Ma con qualche conseguenza…
“Quanto penso di restare a Caia? Ho firmato il contratto per un altro anno ma credo che ci resterò di più. Almeno per vedere realizzate le cose a cui stiamo lavorando”. Il fatto è che le cose sono tante, sempre di più, e quindi a qualche soddisfazione finale dovrà rinunciare. La prima banca rurale è stata inaugurata il 12 agosto. Ora c’è il problema dell’acqua. “Anche dove ci sono i pozzi è acqua infetta. Abbiamo avuto tre mesi di colera. Escrementi umani e animali. Dobbiamo costruire le latrine e soprattutto spiegare perché usarle, cambiare abitudini millenarie. Spiegargli che metterci il cloro non è blasfemo, anche se ‘l’acqua la manda dio’. Stiamo studiando i sistemi di irrigazione, perché manca anche l’acqua non potabile. E infatti ora inizia la fame: dopo una stagione di siccità è arrivata una piena che ha travolto i terreni coltivati. Senza contare l’immenso lavoro culturale da fare sull’Aids. E’ un tabù, è difficile convincerli a fare i test. Ma un terzo della popolazione è positiva. Così credo che sia tra le ottanta persone che collaborano con noi. La morte, ecco, è la cosa più brutta. Centoventimila persone senza ospedale. Ma ci stiamo occupando di realizzare anche quello”. A proposito, la spalla è guarita. Il sorriso di Elena ritorna in Mozambico.
Nando
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