Ricordo di don Vittorio, quello del Barabitt

Breve bagliore di malinconia. Dedicato a un grande prete. Si chiamava Vittorio Chiari. Se ne è andato otto giorni fa e mi rendo conto di non avergli, colpevolmente, ancora dedicato un rigo. Un prete buono. Un combattente vero, di quelli che non urlano, non fanfaronano, ma buttano giù ostacoli, spostano macigni. La sua causa è stata quella dei più deboli, soprattutto dei minori in difficoltà, ai quali ha dedicato l’esistenza. Lo conobbi quasi trent’anni fa grazie a Salvatore Grillo, storico ed eterno direttore del pensionato Bocconi. Una visita indimenticabile ad Arese, appena fuori Milano. Per tutti era la capitale dell’Alfa Romeo, per lui era il rifugio dei suoi ragazzi, che dai salesiani trovavano (e ancora trovano) protezione, studio e possibilità di imparare un lavoro. Li vidi lì a decine i figli di famiglie disperate, i figli di nessuno, a cui signori sconosciuti (quella volta io) andavano a dare la buona notte. Don Vittorio gestiva con amore e discrezione, rideva e diceva parole miste di preoccupazione e di speranza. Non ha mai smesso. Ha pensato anche al cosiddetto terzo mondo: Perù, se ricordo bene. Se ne è andato poi a Reggio Emilia a fare la sua battaglia per gli emarginati,  senza mai dimenticare Arese. Era un martiniano di ferro. E regalò la sua firma a una delle avventure che ho più amato e che più fu odiata dalla Milano da bere degli anni ottanta: quella di Società Civile. Aveva una sua rubrica, sul mesile: “Barabitt” si intitolava molto milanesamente, e non saltava un numero. Io e Gianni Barbacetto ricevevamo i suoi pezzi e ogni volta commentavano: “grande don Chiari”. Grande è stato. Fino alla fine, soffrendo e promettendo al telefono “Sto migliorando, non preoccupatevi, tra un po’ esco”.

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