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I confetti di Margherita Asta
Il Fatto Quotidiano
20 marzo 2001
Chissà chi ci avrebbe scommesso qualcosa, allora. Era il 2 aprile del 1985 quando i telegiornali trasmisero le immagini di una strage oscena e crudele come poche. A Pizzolungo, in provincia di Trapani, una mamma era stata fatta saltare in aria con i suoi due bambini mentre li accompagnava a scuola. Otto e mezzo del mattino. L’ utilitaria, una Scirocco, era stata superata su un rettilineo dall’auto di Carlo Palermo, magistrato, sostituto procuratore a Trapani da soli cinquanta giorni ma già più volte minacciato. L’autobomba per lui era sul ciglio della strada. I mafiosi non ci pensarono un secondo. Il telecomando fu premuto lo stesso, che fosse pure la strage degli innocenti. Di Barbara Asta e dei suoi bambini, Salvatore e Giuseppe, restò poco. Dei due fratellini vennero trovati pezzi attaccati ai muri circostanti. L’auto fece da scudo a quella del giudice. Carlo Palermo si ferì soltanto. I telegiornali raccontarono che i superstiti della famiglia si chiamavano Nunzio, il marito, e Margherita, la figlia più grande. La pìetas popolare che risorge in questi casi si strinse idealmente intorno alla bambina. Rimasta sola, senza la mamma e i fratellini, con quel corredo di violenza nella testa, destinata a vivere in zona di mafia. Chissà come sarebbe cresciuta, che vita avrebbe avuto. Certo non resse il padre, che morì di cuore una decina d’ anni dopo.
Margherita invece ha retto. Aiutata dalla seconda moglie di suo padre, Antonina, che l’ha ospitata e seguita come una figlia-amica fino a pochi anni fa, non si è rifugiata nella voglia impossibile di cancellare la memoria. Né dal ricordo si è fatta schiacciare. Liceo classico. Poi, in base alla legge siciliana, ha avuto un posto nella pubblica amministrazione: funzionario direttivo all’assessorato all’Agricoltura. “Però nella lotta alla mafia non mi ero mai impegnata. Finché nel 2002 mi sono trovata a dovere fronteggiare il processo contro la Cupola, contro i mandanti. E allora mi sono messa a girare su internet e ho scoperto la possibilità di avere un’assistenza legale da parte di Libera. Da lì all’impegno diretto il passo è stato breve”. Così è diventata testimone della ferocia di un sistema che, secondo i luoghi comuni della complicità, dà “lavoro e benessere”. Lo ha fatto spesso nelle scuole. Partendo ogni volta da quel 2 aprile, dalla sua famiglia che finisce in quel punto preciso dello spazio e del tempo; per aggiungere al racconto dello strazio riflessioni sempre più mature. La libertà, la legalità, la pace, la giustizia. I giornalisti che sono andati a Trapani in questi ultimi tempi hanno imparato a tenere il suo numero in agendina. Oggi Margherita è una giovane donna bruna piena di vita, gli occhi verde-nocciola, lo sguardo intenso e sornione insieme. Alla vigilia di un passo che le cambierà la vita. Già, fra le primizie fornite dal “Fatto” ai suoi lettori forse ci sta anche questa, insignificante per la cronaca cingolata ma bella e grande per chi colga il senso simbolico degli eventi: Margherita si sposa, Margherita si fa una sua famiglia, Margherita lascia la terra che ne ha violentato l’infanzia. Non per scapparne, perché il suo destino l’ha affrontato sul posto e con centomila occhi addosso. Ma perché il futuro sposo, Enrico, commercialista, vive a Parma e lei andrà in una città “che mi piace perché è educata ed elegante”. Ha chiesto il trasferimento in una pubblica amministrazione emiliana. All’altare, visto che la sua famiglia non esiste più, l’accompagnerà don Luigi Ciotti; il quale -caso davvero senza precedenti- subito dopo la lascerà allo sposo per vestirsi da celebrante.
L’altro ieri Margherita è stata festeggiata dal popolo di Libera riunito a Potenza per la giornata della memoria e dell’impegno. E non è stata l’unica. Si sposa a settembre anche Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte, la giovane e coraggiosa assessore alla cultura di Nardò, provincia di Lecce, uccisa nell’84 perché si opponeva alla speculazione su Porto Selvaggio, tesoro paesaggistico della sua città. Si sposa in giugno Claudia Famà, figlia di Serafino, l’onesto avvocato catanese ucciso dai clan nel ’95. Sembra la trama di una festa collettiva capace di convivere con l’emozione che sempre blocca labbra di anziani e di ragazzi in questi incontri. Auguri, auguri, si sentiva dire tra i tavoli nella grande cena collettiva di venerdì sera, tra barbe bianche e galoppi rumorosi di bambini. Auguri per i matrimoni ma anche per le tre tesi di laurea discusse nelle ultime settimane da figli cresciuti senza padre o senza madre.
A volte, osservando queste persone con le loro foto portate in pubblico tra le dita, ti viene da pensare alle madri e alle nonne di Plaza de Mayo. Altre volte, andando ai loro cari, viene da pensare al ruolo dei giusti nella storia. Venerdì e ieri è venuto da pensare ai 150 anni: a quanto l’unità d’Italia, il tricolore, vivano in profondità nelle biografie intrecciate di queste migliaia di persone. Gli auguri per Margherita, Viviana e Claudia hanno però una forza che supera ogni riflessione. Comunicano quasi la leggerezza potente della vita che, invece di distaccarsi dalla storia, la ricostruisce.
Nando
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