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Giovanni: diciassettenne in cerca di buone cause
Il Fatto Quotidiano
17 aprile 2011
Preferisce il rosso. Troppo leggero il frizzantino già in tavola. “Lei lo prende?” Certo che sì. Si rimane subito in due. Io non bevo, io sono stanca, io solo un goccio, io devo guidare. Il rosso gli piace. Ma anche la grappa alla cannella, quando spunta a suggellare la cena a tarda ora, dopo che se ne è già uscito un paio di volte per fumarsi una sigaretta. Osteria Madonnetta, un’insegna ovale che pende da un ricamo in ferro battuto, una piccola via a pochi passi dalla piazza del meraviglioso castello di Marostica, provincia di Vicenza, dove ogni anno si gioca la famosa partita a scacchi tra uomini in costume. Il bevitore (e fumatore) di razza non è un partigiano e nemmeno un alpino. E’ un ragazzo di diciassette anni che ha respirato bene l’aria di casa, Bassano del Grappa. Jeans dalla vita bassissima, una camicia nera e una sottile cravatta rossa. Una barba fulva che lo fa assomigliare a Daniele De Rossi, cuore romanista.
E’ finita un’affollata assemblea dedicata ai grandi temi dell’Italia contemporanea. Giovanni Zilio l’ha preparata bene, con Valerio Maggi, Carolina Borgo ed Enrico Bordignon, i suoi compagni di scuola. E ora senza volerlo, senza saperlo, si racconta, incastonato tra le belle facce dei suoi coetanei. Racconta un po’ la sua generazione, o meglio quella parte che non si è bevuta il cervello dietro i miti del successo facile. “La scuola mi ha dato molto. Devi trovare però gli insegnanti giusti. Io sono cambiato molto alle superiori. Nemmeno da far paragoni”. Giovanni fa il liceo scientifico in uno degli istituti più rigorosi del Veneto, il “Lorenzo Da Ponte” di Bassano. Una scuola dove se arrivi con due minuti di ritardo non ti fanno entrare, ma dove le attività civili e culturali vengono coltivate con entusiasmo missionario. Perché cambiato alle superiori? “Guardi non glielo dico nemmeno quello che combinavo alle medie. Mettiamola così: non voglio che lo sappia. Le dico però che tranne un insegnante non c’è stato nessuno che mi abbia aiutato, che mi abbia chiesto perché e percome, mi abbia preso da parte per parlarmi. Punizioni, solo punizioni. Secondo loro io cambiavo con le punizioni. Poi al Da Ponte mi sono sentito accolto, guidato e mi sono appassionato. Così questo è il secondo anno che faccio il rappresentante degli studenti. Certo che mi impegno volentieri. Vede, c’è una cosa che non sopporto degli italiani. Ed è l’abitudine di criticare tutto senza far niente. Lo sa qual è il mio sogno? Di avere la forza di volontà per realizzare in futuro qualcosa che serva davvero agli altri. Si intende, senza trascurare gli affetti, avendo una famiglia, come è giusto. Ma di sapermene distaccare per qualcosa di più grande. Vorrei essere come quelle persone che dedicano tutta la vita a una causa. A scuola ne abbiamo invitate diverse. Mi ha colpito molto, per esempio, l’incontro con Marco Paolini. Ho smosso di tutto per farlo venire, era stato compagno di appartamento di mio padre ai tempi dell’università. Per me il suo Vajont è una delle cose più grandi del teatro degli ultimi trent’anni. Ma è grande anche quando racconta le storie minute del nostro Veneto. Sferzante, sottile, profondo”.
Parla di Paolini, Giovanni, e della sua fisicità in scena, neanche fosse un critico teatrale. Appare sicuro, nei suoi diciassette anni che devono avere subito l’influenza del fratello più grande, anche lui passato per lo stesso liceo, laureato in statistica e ammiratore del subcomandante Marcos. E’ meno sicuro quando parla degli studi che lo attendono. Al Da Ponte, infatti, lui è iscritto a un indirizzo speciale di informatica, imbottito di matematica e fisica sin dall’inizio, eppure dalle mezze frasi trapela la voglia di fare legge. Chissà, l’avvocato, la legalità… Il Sant’Anna di Pisa, gli piacerebbe; ma, con la severità che c’è nei voti al Da Ponte, alla maturità si rischia di non arrivare all’85, il punteggio fatidico per tentare l’ingresso. “Che ci vuol fare, abbiamo qualche professore che per principio più di 8 non dà, niente 9 e 10, e alla fine rischiamo di andarci di mezzo noi, perché altre scuole sono più larghe di manica. Pazienza, se non ce la faccio ripiego su Padova, là il numero chiuso non c’è”.
Non capita frequentemente di parlare con giovanissimi così: capaci di dividersi con tanta consapevolezza tra il merito e la solidarietà, che inseguono il 9 a scuola e insieme le più nobili cause della vita. Si riempie il bicchiere, Giovanni, e racconta che per i 150 anni dell’unità d’Italia si sono dati da fare anche se a Bassano (già, proprio la città del celebre ponte…) finora non si è fatto molto. Con gli amici che gli siedono accanto è andato a Roma grazie a un progetto della consulta provinciale degli studenti, ed è stato designato per la visita al parlamento.
E i progetti dietro l’angolo? Già deciso: tutti in Sicilia appena finisce la scuola. Lui con Enrico, biondo, alto, riflessivo, e Valerio, pelle oliva e sigaretta (“come ce l’aveva sempre Borsellino”). “Andremo a San Giuseppe Jato. Perché si stupisce? Andremo da Pino Maniaci. Lo conosce, no?, il direttore di Telejato, la televisione indipendente che racconta le verità proibite su mafia e politica, fatta tutta in casa, Pino, la sua famiglia e qualche volontario. Si sono appena presi una bella condanna civile e bisognerà aiutarli. Lo abbiamo invitato a scuola lo scorso anno e siamo rimasti in rapporto. Lui ci ha detto ‘ragazzi non venite se non siete disposti a spaccarvi il c….’. Noi ci andremo. Disposti a spaccarcelo per un mese. Ragazzi, non c’è un altro po’ di grappa alla cannella?”
Nando
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