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Cynthia, giornalista messicana. Dall’Italia contro i narcos
Il Fatto Quotidiano
24 aprile 2011
Qualcuno l’avrà pure vista in qualche dibattito pubblico. Magari il 14 aprile al festival internazionale del giornalismo a Perugia. Ordine del giorno, i narcostati. Ma l’incontro con lei è un cazzotto sulla coscienza. Come affacciarsi su un mondo sconosciuto, anche se sempre più raccontato in cronache mozzafiato. Si chiama Cynthia Rodriguez, ha trentotto anni e di mestiere fa la giornalista. Dall’ Italia collabora come corrispondente per prestigiose riviste messicane come “Proceso” o come “Excelsior”. Prima di lasciare il suo paese ha lavorato per “Reforma” e “El Universal”, quotidiani a larghissima diffusione. E ai tempi della presidenza Fox è stata anche coordinatrice dei portavoce ministeriali per la presidenza della Repubblica. Ma in Messico per i giornalisti non tira aria buona, specie per quelli che non chinano la testa davanti ai narcotraficantes più potenti e spietati del mondo. Le donne poi stanno ancora peggio; condannate, soprattutto fuori dalla capitale, a diventare facili bersagli di una violenza impazzita. Decine di migliaia di morti.
Cynthia se ne è andata. Si è sposata con un italiano. Partita per amore ma anche per il bisogno di cambiare mondo (“non per paura”, precisa con orgoglio). E oggi cerca ogni occasione per testimoniare quel che accade nel suo paese. E di imparare; di imparare in Italia tutto quello che possa tornare utile alla sua causa. Ha frequentato il master su immigrati e rifugiati alla Sapienza a Roma e ora si è iscritta al master su corruzione e criminalità appena aperto a Pisa. “Le cose che succedono in Messico incominciano da lontano. E accadono perché c’è stato un prima. Perché per troppo tempo abbiamo lasciato correre. Perché parole come omertà e come pizzo ci sono sembrate del tutto naturali. Accettate come piccoli mali, o addirittura come fenomeni innocenti in una società permissiva e corrotta. Poi rapidamente il mondo ci è cambiato intorno. Violenza e corruzione. Un mondo dove i familiari scoprono che del sequestro del loro caro tutti sapevano ma nessuno ha parlato. Autorità che si voltano dall’altra parte. Lo stesso Calderòn andò al potere promettendo la repressione dei narcos, dei loro cartelli armati fino ai denti. E invece la situazione è perfino peggiorata. Negli ultimi quattro anni fino a gennaio il numero ufficiale è di 35mila morti, ma si rende conto? Trenta vittime al giorno. Con queste cifre è difficile perfino avere una memoria. Credo che da messicana non potrei essere orgogliosa di nessuna personalità istituzionale; siamo davvero senza eroi, a quei livelli. E abbiamo tanti eroi, invece, tra chi ha cercato di denunciare, nella mia professione per esempio, tra gli attivisti dei diritti. E tante, ma proprio tante vittime senza senso, persone passate per caso nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Un giorno telefonai a casa dall’Italia. Mio fratello non mi rispondeva, riuscii a parlare con sua moglie, poi capii. Mi disse che avevano colpito mio cugino Agostino, mi spiegò dove e come era successo, chiesi ‘e ora come sta?’, e la risposta fu che Agostino non c’era più. Capito? Non c’era più, perché da noi accade così. Perché vedi le foto di gruppo e ogni tanto scorgi che un altro amico non c’è più. Senza sapere perché. A Città del Messico ma soprattutto fuori. A Monterrey, a Tamaulipas, a Cuernavaca. La conosce, no, la storia terribile di Ciudad Juàrez, dove le donne vengono uccise a migliaia?”. Sì, è arrivata anche a noi la storia della città al confine con il Texas dove le donne non hanno diritto alla vita, dove si viene uccise tornando dal lavoro. Trecento assassinate sul posto, quattrocento fatte sparire in dieci anni. Di lì era la poetessa Susanna Chàvez, dai versi dolci e struggenti, (“ni una màs” era il suo programma…) attivista dei diritti umani uccisa lo scorso gennaio.
Cynthia ricaccia indietro le lacrime in pochi secondi. Vivere in Italia con la testa al Messico.
“Mi sembra la maledizione della Colombia. Come se dovesse succedere qualcosa di sconvolgente per le istituzioni, perché la gente reagisca. E invece si rimuove sempre. Basta dire di uno che è morto per colpa del narco e subito si pensa che allora pure lui è colpevole; e lì si chiude. E anche le associazioni che dovrebbero aiutare le vittime…non me ne faccia parlare. Alcune sono infiltrate o formate dalla polizia. Se ammazzano uno la gente viene chiamata a mobilitarsi ma si ha spesso la sensazione che lo scopo sia quello di rafforzare le associazioni. Io lo chiamo il traffico del dolore. E’ tutto così incerto…Ecco, vuol sapere qual è la differenza con l’Italia? Che in Messico non c’è nessuno a cui si possa chiedere aiuto con la certezza che starà dalla tua parte e non risponderà ad altri interessi. A volte mi sorprendo a pensare a quello che potrebbe accadere a quell’amica o a quella persona cara. Poi mi fermo, mi viene lo scrupolo misterioso, stupido: e se poi a furia di pensarlo succedesse davvero?”.
Cynthia ravvia i capelli nerissimi e raccoglie i suoi appunti. Li usa ogni tanto: per una testimonianza, per un articolo. L’Italia che ha insegnato al mondo la criminalità organizzata, le sembra anche il paese che la sa combattere meglio. Leggi, investigatori, persone, alleanze civili. Strana storia italiana, la sua. Inquieta, fatta un po’ di speranza un po’ di rimorso. Con la richiesta ai suoi nuovi concittadini di sentire la storia del suo paese un po’ come storia propria. Con una cornice, un contesto che non si appannino mai. Perché quel che accade nel mondo appartiene al mondo. Chi le dà torto alzi la mano.
Nando
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