Di chi è il 25 aprile. Cose ovvie e cose surreali

la Repubblica di Genova, 27 aprile


Immaginiamo solo per un attimo di essere a Parigi il 14 luglio. Festa nazionale, anniversario della Rivoluzione francese. In un anno qualsiasi. E che un giornalista chieda a Sarkozy (o a Chirac, o a Mitterrand o a De Gaulle) perché quel giorno non sia anche la festa della monarchia. Immaginiamo che lo statista interpellato, allibito per tanta spericolatezza mentale, risponda “perché è la festa della Rivoluzione”. E che l’altro insista, chiedendo “Ma non è il tempo di rappacificarsi?”. Venendo subito congedato con il sorriso di generosa bonomia che si riserva agli interlocutori un tantino squinternati. Ecco, la doppia domanda -che ha un che di immediatamente surreale se ambientata oltralpe- deve essere invece apparsa espressione di una qualche pensosità storica a un certo numero di esponenti della vita e cronaca politica genovese. Che ne hanno fatto, nelle intenzioni, un interrogativo incalzante e meritevole di risposte accondiscendenti circa l’appartenenza del 25 aprile. Non è successo in altre città d’Italia e quindi per fortuna non è il caso di trarne deduzioni generalizzate sullo stato di salute del Paese. Però lo sconcerto resta lo stesso. Già: di chi è il 25 aprile? La risposta è ovvia, perfino banale. E’ di chi ci crede. Non è una data comoda, vista la stagione durissima che ha chiuso e visti i valori che rappresenta. In questo senso è una data esigente. Ma è anche una data assolutamente inclusiva. Chiunque ci si riconosca, infatti, ha il diritto di festeggiarla, di sentirla come sua, e nessuno ha il diritto di negarglielo. In un paese normale, tra gente normale, le festività, laiche e religiose, hanno questo di bello: che se uno ci crede le onora, se non ci crede le ignora. O al massimo le maledice. Di chi è, ad esempio, in Germania il 9 novembre, data del crollo del Muro di Berlino? E’ forse anche la festa dei comunisti? Risposta: se sono nostalgici di Honecker, no. Se hanno capito i mali fatti dal comunismo, e oggi sono contenti che esso sia caduto, sì. Così come un monarchico non può pretendere, in Italia, che il 2 giugno sia anche la sua festa (e d’altronde, in genere, non lo pretenderà). Insomma, una festa celebra per definizione certi valori, non quelli diversi o addirittura opposti. E ognuno in un paese normale, si scegli i suoi valori liberamente.

Per questo sbalordisce la pretesa serpeggiata a Genova a ridosso del 25 aprile che, per essere festa piena,  i valori che hanno vinto dovessero rendere omaggio a quelli che hanno perso. Sbalordisce perché questi ultimi (come è noto) non proponevano libertà e diritti ma nazismo e i vagoni piombati delle deportazioni. Non succede, non è mai successo in alcuna parte del mondo, in presenza di lotte civili e rivoluzioni, un simile riconoscimento. E non per caso. La pietas per i vinti è un altro conto. Ed è sentimento alto e generoso. Questo vuol dire che “non c’è posto per i vinti”, come qualcuno ha maldestramente sintetizzato? Nient’affatto. Il posto per i vinti c’è. Proprio perché ha vinto la democrazia. Il guaio è che il 25 aprile è data esigente, appunto, e chiede qualche conto con la propria coscienza. Da qui la scorciatoia: ci si rivolge a “mamma politica” -accordi, opportunità, equilibri- perché snaturi il senso della ricorrenza e apra le porte con generosità ecumenica. Festa di tutti. Anche se non la celebriamo. Anche se non ci crediamo. Anche se (legittimamente) ci è indigesto viverla come il natale della democrazia. In fondo ci vorrebbe tanto poco per misurare la portata della polemica. Perché non chiedere al diretto interessato, a un repubblichino con labari e stendardi (ce ne sono ancora vivi) se ritiene che il 25 aprile sia anche la sua festa, la festa dei vinti? Sarebbe la via più semplice. E ci sarebbe restituita di colpo la natura surreale di questa discussione.

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