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Il dito medio e il filo spinato. I simboli su cui si vota
Il Fatto Quotidiano
29.5.2011
Ma quale “in medio stat virtus”… A Milano il medio, inteso come dito, è diventato il concentrato di un’antropologia urbana da declino, il vessillo della volgarità che ha preso il Palazzo d’Inverno. Dopo avere rivisto in sequenza su youtube le immagini di Berlusconi, Bossi e Santanché con quel dito levato e rilevato al cielo, la città scopre nel suo inesauribile tam tam che vuole tornare al decoro, alla buona educazione. E che l’abbattimento di quel simbolo è forse la prima posta del voto di oggi e di domani. Un clima surreale ha viaggiato per le strade in queste settimane. E’ sembrato di vivere talora in una contrada vandeana e impazzita. Dove, alla vista dei liberali, clerici antirisorgimentali e latifondisti sbigottiti terrorizzano masse analfabete, impugnando ideali forconi contro gli invasori e promettendo al popolo farina e festa (via le multe, via l’ecopass…). Le aggressioni per un libro letto in silenzio in autobus o gli insulti per il quotidiano acquistato all’edicola da un lato; le molte finte aggressioni inscenate a certificare la natura violenta dell’avversario dall’altro. E accuse fosche, in assoluta libertà. Chi ha fatto la propaganda elettorale si è trovato davanti non alle singole escandescenze di alcuni squilibrati ma a un rumore di fondo, una cultura diffusa, gridata anche da chi ha frequentato scuole e università e viaggia in aereo per il mondo. L’idea della droga libera associata a Pisapia nella città che è ormai la capitale della cocaina in Italia, e che è diventato uno dei più grandi centri di consumo del mondo mentre la governavano (o no?) gli avversari di Pisapia, ha qualcosa di strabiliante. Mentre lo spauracchio della moschea (“nel tuo quartiere” minacciava un manifesto) segna la distanza tra l’immagine che la Milano della destra ama dare di sé -internazionale, la più europea tra le città italiane- e la realtà di una metropoli-istrice che vorrebbe tirar su il ponte levatoio; una metropoli dimentica, come ha ricordato il sociologo Guido Martinotti, che proprio quella “O mia bela Madunina” così maldestramente cantata dai vertici del Pdl giovedì sera annuncia una mano sempre tesa a chi viene da fuori, perché “Milan l’è un gran Milan”. Una metropoli, ancora, che a sentire i discorsi di queste settimane vorrebbe stendere chilometri di filo spinato verso chiunque. Tranne i ricchi, è ovvio; ‘ndrangheta inclusa. Con i suoi bersagli umani (zingari, rom, drogati, gay, musulmani) allestiti dalla Lega e subito digeriti da quello che si presentò un giorno come “il partito liberale di massa”; il quale di suo, d’altronde, parlerebbe solo di toghe rosse e giustizia a orologeria.
Diciamo la verità. Senza la rete, senza la possibilità di comunicare in tempo reale ogni secondo e senza la fantastica capacità di imprigionare in una autentica epifania di satira popolare le accuse contro Giuliano Pisapia, sarebbe stato difficile resistere a questa vera e propria azione di sfondamento. Condotta senza risparmio né di argomenti né di soldi, tutti e due spesi senza limiti, nella più formidabile concentrazione di mezzi economici mai vista in una campagna elettorale amministrativa.
Perché, giova ripeterlo, di elezioni amministrative si tratta. E non ha aiutato molto, negli ultimi giorni, il ripetuto, strettissimo, minacciato collegamento tra il loro risultato e gli scenari nazionali. Questa è stata infatti l’arma subito giocata ossessivamente da Berlusconi e rifiutata con fermezza da chi conosce bene Milano e i milanesi. Certo, in politica tutto si tiene. Ma chi ha riempito piazza Duomo di arancione venerdì sera, in una delle più grandi manifestazioni mai viste negli ultimi decenni in città, sogna prima di tutto di uscire da questa apnea, da questa cappa di chiusura, di affarismo e di indecenza. Di potere offrire alla storia milanese un nuovo clima civile, nuove parole, nuovi simboli. Di mettere per sempre in una teca, a futura memoria, quel dito medio e quel filo spinato, linguaggio e cultura del plebeismo borghese rimasto al potere per vent’anni. Se il voto lo renderà possibile, il resto verrà.
Nando
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