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La forza della risata. E l’insostenibile pesantezza della farsa
Il Fatto Quotidiano
1 giugno 2011
Li ha seppelliti una risata. Sferzante, giovanile, contagiosa. Esplosiva e incontenibile davanti al troppo, al troppo di tutto. Che ha allagato l’altra sera piazza Duomo trasformandola in un grandioso teatro di satira popolare. Il gruppo di giovani che dirige l’ occhio verso l’alto inscenando la progettazione della “più grande moschea d’Europa”. L’ingegnere che spiega alle maestranze: “ecco, intanto le guglie devono sparire, via anche quella statuina d’oro lì in alto, e tutt’intorno spazi per i kebab”. A cinquanta metri da loro campeggia su un terrazzo pubblico un grande striscione con su scritto “Moratti, una donna fuori dal Comune”. E poi quel “Zingaropoli”, mugghiato da Bossi e rimbalzato sui cartelloni di tutta Milano, ritmato ogni dieci minuti con la giocosa cantilena degli ultrà vittoriosi. O il “Gigi D’Alessio, vogliamo Gigi D’Alessio” diventato rapidamente il tormentone della notte, una canzonatura impietosa del giovedì prima, la più discussa musica dei quartieri napoletani chiamata a benedire il futuro della capitale padana, la rivolta della Lega, l’accusa alla sinistra violenta e comunista di avere minacciato il cantante, La Russa che fa promesse a telefono e microfono unificati, fino alla reazione rabbiosa dei fan fatti salire a vuoto dalla Campania: “Pisapia, Pisapia”.
Affonda sotto una risata liberatoria la più grande farsa politica della storia europea del dopoguerra. Ogni tabù annunciato, ogni incubo agitato, si sono trasformati grazie alla rete in un potente sberleffo. La sinistra triste? Forse quella che Berlusconi incontrò al suo apparire sulla pubblica scena. Questa ha ironia da vendere (ci risiamo: perché la satira è di sinistra?). Mentre dall’altra parte, soprattutto a corte, sembrano capaci di ridere solo di gnocca e dintorni.
E’ una risata che viene da lontano quella che rimbalza tra gli annunci di vittoria che arrivano da Napoli e da Arcore, da Rho e da Trieste, da Cagliari e Gallarate. Nasce, dopo aver fatto a braccio di ferro con l’indignazione, dal repertorio di gag ineguagliabili che ci è stato rappresentato per anni. Il parlamento pronto a votare che Ruby era la nipote di Mubarak, esattamente come avrebbe potuto votare che Napoleone andò in ritiro a Lampedusa o Garibaldi a Formentera. Il palco attrezzato davanti al palazzo di giustizia di Milano perché l’imputato possa insultare i suoi giudici in mezzo a una folla di figuranti in estasi. I bunga bunga narrati come cene eleganti a base di coca cola light e di discussioni politiche con giovani apprendiste Cavour. Le prostitute riaccompagnate a casa con le auto della polizia. Satiri ottantenni e lenoni falliti che spuntano come spot nei luoghi più improbabili. Falsi attentati con incredibili sparatorie per le scale. Le rincorse a Obama per spiegargli come discoli pentiti che non è colpa mia, in Italia c’è una dittatura dei giudici. E quei capelli, santo cielo quei capelli. E gli strafalcioni a getto continuo , dal lontano Romolo e Remolo fino all’ultimo Goteborg al posto di Bad Godesberg. Un giorno sembrerà di avere sognato, e i ragazzi ci diranno “ma non ridevate?” come dicevamo noi ai nostri genitori rivedendo il duce con le mani sui fianchi a piazza Venezia. Davvero la prima volta è tragedia e la seconda è farsa.
Ora bisogna uscirne e dare il segno fulminante della differenza. Mai dimenticare che il secondo governo Prodi dilapidò il patrimonio accumulato in cinque anni di opposizione in poche settimane: i giochi miserabili (non del governo) per l’elezione del presidente del Senato; i cento ministri e sottosegretari, quasi tutti sconosciuti, lottizzati tra partiti e correnti, salvo accorgersi, dopo il giuramento, che mancava un sottosegretario in grado di reggere la Finanziaria in aula; l’indulto come prima e più assoluta urgenza. Si lavori alto per il Paese. E godiamoci questa riserva di ironia, pronti a usarla verso di noi. Come quella del giovane tifoso di Pisapia che l’altra sera ha chiesto agli amici di aspettarlo un attimo: “vado a rubare un’auto e torno”.
Nando
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