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Mafia e antimafia. “Un filo di rapporti o l’estraneità assoluta” (recensione)
Visto che Robertoli blogghista insigne l’ha richiamata (a proposito) in un suo post, vi regalo la recensione del libro di Antonio Ingroia, Il labirinto degli dei, che ho scritto per l’Indice dei libri del mese
"Una guerra. O di qua o di là. I macellai contro i samurai del bene. E Antonio Ingroia per definizione alla testa dei samurai. A scagliare i fulmini della legge contro i suoi avversari in un mondo diviso senza rimedio in due, il bianco e il nero. Fin qua la vulgata. Un po’ “Piovra”, un po’ “la sera andavamo ad Arcore”.
Il pregio maggiore dell’ultimo libro di Antonio Ingroia, “Il labirinto degli dei” (il Saggiatore, 181 pagine, 15 euro), è proprio quello di smontare spontaneamente, forse addirittura inconsapevolmente, la stilizzazione dei ruoli e delle parti prodotta dall’accumularsi ultraventennale delle convenzioni simboliche e semantiche in tema di mafia e di antimafia. Uno dei pubblici ministeri più invisi al Palazzo racconta con semplicità la sua storia di magistrato palermitano in un teatro affollato di eventi e di protagonisti capaci di testimoniare, ben oltre la Sicilia, l’Italia contemporanea. Dalla partecipazione in veste di studente di giurisprudenza ai seminari in cui poteva incontrare un giudice come Rocco Chinnici ai primi mesi in veste di uditore discreto e timoroso accanto a Giovanni Falcone. Dagli anni a Marsala come cucciolo di Paolo Borsellino al ritorno a Palermo dopo le stragi. E Caselli. E i processi che hanno spaccato l’Italia: Andreotti, Dell’Utri; con Berlusconi sullo sfondo. E i pentiti o collaboranti che incendiano la stampa e la politica, da Gaspare Spatuzza a Massimo Ciancimino. Storie dure, aspre, che potrebbero indurre a ripudiare le mezze misure, a disconoscere l’incertezza dei confini tra le storie personali. E che invece passano per dubbi e interrogativi, parlano di dilemmi morali e operativi, di strade impervie alla decifrazione di dettagli e sfumature. Perfino affiora il segno doloroso del rimorso; non per essere venuto meno al dovere ma per le conseguenze umane dell’averlo rispettato.
Ecco, se il lettore occasionale sarà colpito dai riferimenti alle vicende più note; se il giornalista frettoloso cercherà le possibili ghiottonerie di cronaca nelle pagine su Spatuzza e Dell’Utri, Ciancimino e Berlusconi; la vera cifra culturale di questo libro, ciò che lo rende importante per capire la celebre “antropologia” dei giudici di Palermo è invece esattamente questa tormentata navigazione a vista nella storia politica e criminale del paese, dove l’unica cosa sulla quale non ci si interroghi è il dovere di applicare la legge nei confronti di chiunque. I maestri non mancano, d’altronde. E Ingroia se li “beve”; ne osserva i metodi di conduzione degli interrogatori durante le indagini, i modi di leggere i rapporti di polizia, le scelte investigative, gli stili di governo degli uffici e dei collaboratori. Anche le faticose strategie per rintuzzare gli attacchi più insidiosi, quelli che vengono da fuori: dalla politica, dalle istituzioni, dalla libera stampa, dagli intellettuali. Un apprendistato eccezionale su un teatro eccezionale. Che è di guerra vera. Chi si prende la libertà di dileggiare o infangare i protagonisti di quella stagione, ma anche chi costruisce in contesti tanto diversi le odierne mitologie del “rischio”, deve solo andare alle pagine in cui l’autore racconta le sue condizioni di vita dopo il terribile uno-due del maggio-luglio del ’92. Sacchi di sabbia sul pianerottolo davanti all’uscio di casa, cani antibombe, soldati in tuta mimetica appostati tra gli alberi con il viso nerofumo per non farsi illuminare dai raggi della luna.
Eppure, come si diceva, il clima di guerra non annulla né la ragion giuridica né gli scrupoli morali. La parte forse più bella del libro è anzi quella che, scavando nella lunga galleria dei tradimenti, si sofferma sulla vicenda del tenente dei carabinieri Carmelo Canale, già -da maresciallo- collaboratore fedele di Paolo Borsellino a Marsala e poi dello stesso Ingroia a Palermo. La vicenda è stata oggetto di polemiche al vetriolo. Canale venne accusato un giorno da un pentito ritenuto attendibile di intrattenere rapporti collusivi con i clan e in particolare di avere passato a Cosa Nostra una notizia riservatissima ricevuta proprio da Ingroia. Al turbamento per la notizia il magistrato palermitano dovette aggiungere la pressione emotiva della doppia posizione in cui si venne a trovare: testimone d’accusa per confermare di avere dato personalmente a Canale quella notizia, testimone a difesa per certificare che l’imputato godeva della massima stima di Paolo Borsellino. Canale uscì assolto sul piano giudiziario. Ma Ingroia si arrovella lo stesso sul significato degli eventi e sulla ambiguità ambientale in cui è costretto a muoversi (dopo molti anni un altro suo collaboratore, il maresciallo della guardia di finanza Giuseppe Ciuro viene infatti accusato -e condannato- per avere fatto da “talpa” per i clan). E ricorda i dubbi di Canale sulla pista mafiosa dopo la strage di via D’Amelio, il convincimento del tenente che non potessero essere stati i clan a colpire Borsellino perché se no lui lo avrebbe saputo in tempo, e avrebbe protetto e avvertito il proprio “capo”. Qui, al di là della vicenda umana, giunge la chiave sociologicamente più interessante per rivisitare vicende tanto intricate. E’ come se si incrociassero negli anni della Svolta due differenti concezioni, meglio, due generazioni dell’antimafia dello Stato. Una generazione di funzionari abituata a intrattenere con la mafia un filo di rapporti “a fin di bene”: per ottenere informazioni riservate, per prendere le misure al contesto, in una logica di scambio con una mafia ancora legata ai tradizionali modelli di convivenza con lo Stato. Canale avrebbe dato la vita per Borsellino, questo è certo; ma intratteneva credibilmente quel filo di rapporti. Se avessero deciso di uccidere Borsellino, i suoi interlocutori di quel mondo lo avrebbero avvertito. E lui avrebbe salvato il proprio “capo”. Accanto a questa tipologia di investigatori cresce però una nuova generazione di funzionari che fa della assoluta alterità alla mafia un proprio dovere; e che per questo taglia radicalmente con le promiscuità sociali ancora clamorose degli anni settanta. E’ questo groviglio, questo doloroso confronto tra la seconda e la prima generazione (della quale fa parte lo stesso maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, cognato di Canale e suicida per ragioni mai del tutto chiarite), che propone le riflessioni più coinvolgenti sulla famosa zona grigia e sulle spesso controverse nozioni di “innocenza” e di “fedeltà istituzionale”.
Naturalmente il libro propone anche piani di riflessioni più prevedibili, dati il tema e l’autore. Ma la ricchezza della biografia sfocia lo stesso e di continuo in prospettive inedite. Colpisce ad esempio la estrema complessità psicologica del rapporto con i collaboratori di giustizia, di cui pure vengono scandite le generazioni. Sono tre, secondo Ingroia: quella di Buscetta, quella dei Cancemi e dei Giuffré, quella degli Spatuzza. L’autore guida il lettore in un autentico meandro di motivazioni, paure, speranze, risentimenti, fiducie, doppiezze, selezionando i suoi ricordi personali. Dipinge i personaggi con rispetto, e spiega con esempi concreti i difficili processi di valutazione dei loro contributi, la fatica dei riscontri, il dovere della vigilanza, le piste abbandonate dagli investigatori. E così facendo induce nel lettore un senso di disagio per la strabiliante cittadinanza accordata alle campagne condotte contro i famosi “teoremi” dei magistrati palermitani. Per la violenza fatta a loro, alla verità, all’opinione pubblica.
Sul piano antropologico, in ogni caso, sono di straordinario interesse le memorie che il giudice palermitano ci consegna dell’incontro avuto proprio con colui che dell’antropologia (dei giudici) ha fatto un cavallo di battaglia ideologico. I dettagli dell’audizione chiesta da Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi per dichiarare di volersi avvalere della facoltà di non rispondere, il racconto delle porticine laterali da cui i pubblici ministeri, diversamente dai giudici, vengono fatti passare, della distanza a cui si situa da loro il presidente del consiglio grazie a un tavolo lungo quasi venti metri, dell’ingresso di Berlusconi come padrone di casa nel salone convertito in aula di giustizia, dell’appassionata, inutile richiesta del pubblico ministero al capo del governo di testimoniare in favore dell’amico Marcello Dell’Utri, sono tessere indispensabili per chi vorrà comporre il mosaico dell’Italia di questi anni: per costruire una adeguata teoria del rapporto tra pubblico e privato o tra poteri dello Stato, o elaborare una mappa delle “ovvietà culturali” dei gruppi dominanti.
Per ricostruire invece l’antropologia dei “diversi dalla razza umana” (secondo la nota espressione del 2003), basteranno poche semplici righe alle pagine 91-92. Padre Puglisi, si chiede Ingroia, aveva messo nel conto il proprio sacrificio? “La domanda si può estendere a tutte le persone impegnate contro la mafia, cadute nell’adempimento del dovere. Impossibile rispondere. Una cosa è certa, queste persone il loro dovere l’hanno fatto fino in fondo. Dopo di loro, non dovremmo sentirlo anche noi questo dovere?”
Nando
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