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Fa lo scultore? Mettetelo allo sportello
Il Fatto Quotidiano
31.7.2011
Chissà perché, ricorda il Vecchioni di un tempo. Sarà per i capelli e le guance un po’ da hidalgo, sarà per quello sguardo trasognato. Antonino Cerda fa lo scultore. Figlio di un sarto siciliano andato a Genova a cercare fortuna, ma che lo ha fatto nascere a Menfi e tenuto lì fino a due anni (“e ne sono contento”), ha vissuto sempre d’arte. Il liceo civico artistico Barabino prima, dove entrò in contatto con un piccolo gruppo di maestri, come Michelangelo Barbieri Viale e Lorenzo Garaventa; poi l’Accademia di Belle Arti Ligustica. E la passione per la scultura. In ogni forma, compreso il trattamento delle pietre dure. Qualche supplenza, quindi la cattedra proprio al Barabino, il luogo dell’eccellenza e delle chiare fame, che l’amministrazione civica genovese considerava “un fiore all’occhiello della città”. Un’esperienza avvincente. Genova resisteva al terrorismo anche coltivando i suoi luoghi di produzione artistica. Poi la crisi della grande industria e del porto. E le voragini del debito pubblico nazionale. Di là gli sprechi faraonici per arricchire cricche e clan d’ogni risma, di qua i tagli continui agli enti locali e alla cultura. In questa tenaglia è finito il Barabino. “Il liceo andava bene. Gli studenti aumentavano, bisognava respingere molte richieste di iscrizione. Però nel 2004, per questioni di cassa, venne fatta una convenzione che portava i licei civici genovesi dentro lo Stato. Il Barabino dentro il Klee. Provvisoriamente. Per rendere tutto definitivo entro il 31 agosto del 2011. E invece siamo ancora qui nell’incertezza più assoluta. Il comune non intende riprendersi i vecchi licei civici, lo Stato arriva alla scadenza della convenzione senza una parola. E noi? E i nostri studenti? Ci è stata ventilata l’idea di un rientro nei ranghi comunali, però con mansioni impiegatizie. Ma si può mettere una ventina di scultori o pittori a fare gli impiegati? A tanto è arrivata la considerazione per l’arte in Italia?”. “Noi del Barabino abbiamo un po’ l’orgoglio della nostra provenienza. Siamo gruppo. E anche se ci siamo fusi bene con il Klee, siamo noi che teniamo in piedi le sezioni sperimentali”. A parlare, ora, è Anna Maria Drago, una gentile signora bionda che non dipinge e non scolpisce ma insegna inglese. “Solo che venendo qui da un liceo statale mi sono sentita subito risucchiata in un altro clima. E’ cambiato il mio modo di essere, è cambiato il mio inglese, è cambiato perfino Shakespeare. E’ una scoperta continua, entusiasmante. E’ un altro inglese, è materia, comunicazione artistica. Qui con gli studenti è come creare e ricreare di continuo. Siamo una specie di comunità artistica che fra l’altro partecipa alla vita civile della città. Non ci siamo mai tirati indietro. L’albero dei diritti lo scorso Natale l’hanno allestito i nostri ragazzi. Faremo noi in autunno la mostra dei progetti per il monumento alle vittime del terrorismo. Abbiamo lavorato un anno con la provincia e la Caritas al progetto ‘Genova come porta’ per i popoli che arrivano. Abbiamo contribuito a creare un logo per la Fao sulle uguali opportunità. Senza contare gli ottimi risultati dei nostri allievi in concorsi locali o internazionali”.
“E poi”, insiste Cerda, “in questa storia c’è una specificità. Vede, un artista insegna a scuola o in accademia anche per potere continuare a vivere come artista. Il rapporto con l’insegnamento ti stimola grazie alla creatività dei ragazzi. Con loro è una specie di auto-aggiornamento continuo. Ma poi tu dipingi, scolpisci, crei, componi, segui la tua vocazione. Studi, ti cimenti. Anche perché hai uno stipendio che ti dà una certezza minima. Perché l’arte non fa guadagnare, fosse per il mercato la gran parte degli artisti vivrebbero in miseria fino alla morte, quando qualcuno li rivaluterà. Ecco, qui si tratta di artisti. E allora mi chiedo: davvero si può stare in ufficio dal lunedì al venerdì, e poi si torna scultori o pittori al sabato e alla domenica? Ma se l’immagina? Per me il lavoro d’artista è una necessità interiore più che un piacere. Se resto una settimana senza andare in studio mi sembra di non avere senso”.
Antonino Cerda non si atteggia ad artista di fama internazionale. Ma il suo contributo all’arte di Genova e della Liguria l’ha dato. Lo collocano tra il minimalismo e il cosiddetto astratto-concreto. Ha vinto premi anche importanti, come il “Duchessa di Galliera”, ha tenuto esposizioni, ha partecipato anche alla selettiva Biennale internazionale di Faenza, è stato invitato più volte all’estero, ha esposto creazioni di grafica a Tokio, opere sue sono in collezioni private in altre regioni italiane. Ha scritto cataloghi e saggi. Ha abbellito vie cittadine (anche se la sua statua alla fontana di Prà è ridotta in malora), pubblici uffici e pure navi da crociera. Fissi le guance di questo Vecchioni d’un tempo, ascolti la bionda signora che ha riscoperto Shakespeare tra le tele, e pensi che certe persone danno davvero più di quanto ricevano e che raramente ci sarà un momento in cui qualcuno glielo dirà. Eccole così, come nobili questuanti, in pellegrinaggio tra una lettera al direttore, un incontro in prefettura, una giornata di speranza in municipio, un appuntamento al ministero, uno spiraglio che si apre, forse Comune e Stato si divideranno le spese. “Se no l’alternativa?”, sussurra Cerda, “lasciare la scultura a 56 anni o restare scultore senza stipendio”. Perché questo può capitare agli artisti-docenti nell’Italia degli sperperi da nababbi e dei tagli senza pietà e senza cervello. Auguri, nonostante tutto.
Nando
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