Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Note di viaggio al ritorno
E il viaggio danese finì. Perciò, mentre ordino gli appunti per iniziare a scrivere il nuovo libro, vi consegno qualche riflessione sparsa, che magari allungherò con il tempo e la memoria. E poi non si dica che non ci sono più i viaggiatori di una volta…
Di alcune cose ho già scritto e cercherò di non ripetermi. Diciamo allora che dello Jutland è decisamente più bello il nord. Laghi, fiordi, colline dolci dappertutto. E mari sconfinati e popolatissimi di gabbiani e altri uccelli. I cerbiatti che da noi vedi con il cannocchiale dopo lunghi appostamenti nei parchi naturali, là gironzolano in assoluta libertà a branchi innocenti ai bordi delle strade. Mai visti tanti cavalli. E di tutti i colori, perfino con le criniere albine. Quando il vento tira forte (e succede spesso) le criniere si arruffano verso l’alto e sembrano quelle dei leoni. Le pecore non sono solo bianche, né quelle nere sono la classica eccezione sfortunella nel branco; ho visto branchi interi di pecore nere. In ogni caso bianche, grigie o nere che siano, approfittano tutte della ricchezza dei pascoli. Hanno cosciotti grassottelli come li avevo visti solo in Norvegia. Molti meno cani che da noi nelle città. Ipotesi amara: con tutti i bambini che ci sono, c’è probabilmente meno bisogno di compagnia.
I bambini, appunto. Lo avevo già scritto dopo un week end lungo a Copenhagen anni fa. Sono tantissimi, ed evidentemente padri e madri hanno più fiducia nel futuro e nello Stato. Sono tutti bellissimi, mai uno che sia un po’ bruttino. Così che il gioco preferito della biondina è diventato ben presto quello di beccare per strada o al pub i tipi più appanzati, sgraziati e inespressivi e dire “quello una volta era un bel bambino”, per interrogarsi sulle locali e prodigiose leggi dell’evoluzione. Le persone sono gentili. Più volte ci è capitato che, vedendoci confabulare con toni interrogativi o vedendoci consultare la cartina, si avvicinasse qualcuno chiedendo “Can i help you?” o addirittura provando a interloquire con noi in italiano. Le piste ciclabili sono sacre, guai a finirci dentro per sbaglio, ma questo lo sa chiunque sia stato nei paesi scandinavi. I danesi, inoltre, devono fidarsi molto del rispetto altrui per la privacy (e infischiarsi abbastanza dei giudizi altrui). Solo così si spiega la quasi sistematica assenza delle tende alle finestre, anche quelle al pianterreno. Specie la sera, con le finestre illuminate, è difficile non cogliere involontariamente, anche per un attimo solo, scene intime di lavoro o di cena, o più intime ancora. A proposito di sera: nella stragrande maggioranza dei centri la vita finisce alle otto. Difficile trovare negozi aperti dopo le cinque, se non nelle città più grandi (tre o quattro). Certe volte a metà pomeriggio sembrava di aggirarsi in città fantasma. Le auto erano lì ben posteggiate sotto le casa, ma le persone proprio non si vedevano.
Fuori Copenhagen si incontrano pochi italiani, riconoscibilissimi per quanto sono agghindati e leccati anche nelle circostanze più informali. Eccezione solo a Ribe (uno stuolo). Uno mi ha riconosciuto dal suo tavolino mentre passavamo davanti a “Mamma Rosa” nella via centrale di Copenhagen. Con occhi inequivocabilmente di spavento, non di sorpresa come altri. Unica conclusione che ho saputo trarre: doveva essere un latitante (non ridete: accadde una volta a Praga), ma purtroppo non l’ho riconosciuto. Copenhagen comunque bisogna girarsela in lungo e in largo. L’ideale è farsi i tre sight-seeing per turisti e scendere più volte. Le narrazioni in cuffia sono fatte molto bene e anche con una certa qualità umoristica. Solo così ho potuto vedere, d’altronde, la più enorme distesa di campi di calcio mai vista in vita mia. Una quarantina di campi verdissimi uno in fila all’altro, incrociati con altri ancora, in uno spazio che sembrava fatto più per la fantasia che per essere occupato per davvero. Ecco, ho detto alla biondina, se esistesse davvero il paradiso mi piacerebbe che fosse così. E con questo finisco, salve aggiunte postume. Ora si passi alla prefazione del libro.
Nando
Next ArticleDa Tel Aviv, da Hebron. Viste in diretta con occhi di pace