Teatro Officina, il centro dell’altra Milano

Il Fatto Quotidiano
4.9.2011


“Sono il Teatro Officina”. Così si presenta, con signorile
eleganza, per dire chi è, anche per strada. Come se Strehler si fosse
presentato dicendo “sono il Piccolo Teatro”. Ma Massimo de Vita è un artista
speciale. Chi a Milano ha seguito qualcosa del teatro d’avanguardia o di quei
locali in fondo a uno dei casermoni popolari di Milano nord, di quelle stanze
dimesse trasformate in un piccolo teatro vitale e appassionato da sessanta-settanta
spettatori, sa all’incirca che cos’è il teatro Officina. Sa che ha accompagnato
invenzioni culturali, passioni politiche e civili, contrasti sociali della
città dagli anni settanta, dalle lotte sindacali e studentesche fino alla questione
recente di via Padova, il luogo delle cento etnie e del coprifuoco ordinato
dalla giunta Moratti. Ma sapere del teatro Officina non significa conoscere e
riconoscere fisicamente Massimo de Vita. Che ne è stato il demiurgo, il geniale
e testardo animatore. A conoscerlo sono soprattutto i frequentatori del suo
teatro e i partecipanti alle manifestazioni di movimento costruite senza
l’appoggio dei media. Quelle un po’ così, che difendono cause sacrosante ma non
offrono platee straripanti. E che quindi non possono contare sul personaggio
televisivo che venga a infiammare o accarezzare le fantasie con brani teatrali
o poesie. Allora si invita Massimo de Vita, questo scavezzacollo di
settantacinque anni (appena compiuti), che dice sempre di sì. Che arriva con il
suo cappello scuro a falde calato sulle ventitre, la barba sorniona e recita, riassumendo
in versi il senso di quel che si sta facendo.

 

La città che si è alimentata del sangue e delle idee di
tutte le regioni italiane deve dunque a un attore e regista abruzzese una delle
sue esperienze di nicchia che alla fine faranno storia nella cultura milanese
più di alcuni celebrati e affollati teatri del centro. Era il 1973 quando un gruppo di studenti, insegnanti e operai trasformò il
salone di una balera in viale Monza 140 in un teatro di sperimentazione. Lo
chiamò “Officina” per dire che doveva servire a ripensare la cultura e la
città. Paolo Grassi, il grande nume del Piccolo Teatro, diede la sua
benedizione in idee e anche qualche soldo.

Il teatro divenne subito uno dei punti di riferimento
per i quartieri, per le compagnie sperimentali, per le prime cooperative teatrali
(da quella dell’Elfo a Nuova Scena), e per i Canzonieri di cultura popolare, capitanati
da Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli e Ivan della Mea. E
poi il cineforum, i corsi di musica popolare, le assemblee delle prime comunità
straniere di Milano… Una fucina: un’officina
appunto.


Nel 1976, dopo l’esperienza con la cooperativa
Nuova Scena di cui era stato un fondatore insieme a Dario Fo, Massimo de Vita
assunse la direzione artistica del teatro. Che iniziò a produrre spettacoli.
“Quali furono i più importanti? Forse Maccheronea e Il comico e il
suo contrario
.

Ma quasi subito dovemmo affrontare
difficoltà di ogni genere.
Nel 1984
la vecchia sala fu dichiarata inagibile e dovemmo spostarci di qualche
centinaio di metri: andammo nell’attuale sede in via S. Elembardo, in un
cortile di case popolari. Qui ristrutturammo un vecchio padiglione e
incontrammo uno straordinario narratore milanese, Antonio Bozzetti, che sarebbe diventato un perno della nostra esperienza.
Ma pesò soprattutto la temperie politica, che ci avrebbe costretto a giocare
per decenni la parte degli eretici, altro che avanguardie. Negli anni ’80, quelli della famosa
"Milano da bere", operavamo
nella parte invisibile di Milano, le periferie. Per tre estati organizzammo Teatro
nei Cortili
, e in inverno la rassegna di musica, teatro e poesia Imperiferie.

Negli anni ’90 arrivarono i trionfi della Lega e
del berlusconismo. Soldi per noi, figurarsi. E noi ci specializzammo in un
particolare lavoro sul territorio: quello della raccolta delle narrazioni
popolari (quelle vere, mica le fandonie padane) e della loro restituzione
sociale. Incontravamo le persone più semplici, le sceglievamo come testimoni di
un mondo particolare, ne registravamo i racconti, li intrecciavamo con la poesia
e teatro, poi portavamo gli spettacoli nei luoghi dove la narrazione era stata
raccolta.


Così avvenne nel 1997 con i contadini di Olevano di
Lomellina e lo spettacolo Memorie di terra contadina, rappresentato
-pensi- in una corte agricola; o nel 1998 con l’indimenticabile Cuore di
fabbrica
, che raccontava la vita operaia nelle grandi fabbriche di Sesto
San Giovanni, ora dismesse e chiuse; già proprio quelle dello scandalo. Fino
agli anni più recenti, fino a Voci dei quartieri del mondo prodotto nel
2005 con la Casa della carità di Don Virginio Colmegna, ove la narrazione è
quella degli  immigrati stranieri che a Milano vivono e lavorano. E in quello
stesso quartiere di Via Padova nel 2010 il Teatro Officina partecipò
attivamente all’invenzione e organizzazione di "Via Padova è meglio di
Milano", una due giorni di eventi culturali che rovesciò gli stereotipi
repressivi sulla via più cosmopolita di Milano, altro che banlieue
milanese, come la presentano i media”.

 

Si apre la storia della città
dietro il racconto sorridente del regista-attore. E non capisci mai quanto sia
un lupo solitario dei palcoscenici (o delle corti contadine) e quanto il
cantastorie creativo immerso nei movimenti. Uno sguardo dolce alla compagna
Daniela, che lo segue da decenni, e uno sguardo enigmatico all’interlocutore
come per dire “è tutto…ma se vuole facciamo notte”. “Sono il Teatro
Officina”, d’altronde.

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