Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
I popoli di don Giuliano
11.9.11
“Obrigado”. Gli scappa, ogni tanto. Gli scappa pure la sera, davanti a quasi millecinquecento persone, di parlare in portoghese. Sei anni e mezzo non sono mica una settimana o un mese. E don Giuliano Zatterin, profeta disarmato del Polesine, se ne è andato esattamente sei anni e mezzo fa. Dalla provincia di Rovigo in Brasile a fare il missionario, destinazione Condeuba Bahia. Solo che la saudade funziona anche all’incontrario. Così il profeta dalle maniche impolverate torna ogni anno nelle settimane della vendemmia a rivedere la “sua” gente, che non lo ha mai dimenticato. E la sua terra, che ha nel cuore. Il padre la scelse venendo da Sassano, Vicenza. Provincia bianca, dove era difficile trovare lavoro per l’operaio di sinistra che aveva fatto il partigiano nei boschi di Asiago e che esortava il figlio a stare con gli ultimi. Poi la vita di don Giuliano si è svolta quasi interamente qui, tra piccoli paesi e grandi speranze. Il primo incarico, nel ’71, lo ebbe nel luogo dell’eterno ritorno, San Martino di Venezze, dove l’altra sera prima ha celebrato messa davanti ai suoi fedeli antichi e nuovi, poi ha chiuso un affollatissimo incontro con altri ospiti sui 150 anni dell’unità d’Italia. “Fu bellissimo arrivare qui. Era il ’71. Non so se fui il primo in assoluto, certo fui uno dei primi a non vestire gli abiti talari. Con scandalo anche del mio parroco. Ma tra i giovani si diffuse un entusiasmo contagioso. Era arrivato un prete ‘diverso’, dicevano. Che parlava un’altra lingua, che diceva che l’eucaristia era per tutti. Trovai un terreno fertile per fare tante cose. Poi fu una girandola di spostamenti. Dal ’74 al ’78 ad Arquà Polesine, quindi un anno come prete operaio a Moriago della Battaglia. E dal ’79 al ’91 Badia Polesine”. Già, a Badia lo ricordano ancora per i tanti testimoni civili chiamati a incontrare centinaia di fedeli che si incamminavano la sera verso la parrocchia come fosse un presepe. Vi trovarono ospitalità tutti i temi scomodi di quegli anni, perfino le stragi e i poteri occulti. “Lo sa perché? Perché è sempre stata questa la mia preoccupazione principale: aiutare la gente a pensare. E’ questo che salva, non la religione. E’ la vita vera. Sa, mia madre mi ha trasmesso la fede, ma mio padre la voglia di lottare, e quell’imperativo che gli tornava sempre sulla bocca: non essere superficiale, guardaci dentro, alla realtà”. Fu proprio per pensare, per confrontarsi meglio con la vita, che all’inizio degli anni novanta don Giuliano lasciò la sua terra e se ne andò al San Carlo a Milano, dove c’era padre David Maria Turoldo; e successivamente al gruppo Abele a Torino da don Luigi Ciotti. Poi il ritorno in Veneto, a Sariano, la chiesa con lo spiazzo e il campanile e il campo di calcio retrostante, dove con meraviglia dei paesani andavano a sfidarsi Gherardo Colombo e Romano Prodi, Giancarlo Caselli e Paolo Rossi (l’attore, non Pablito), con Antonino Caponnetto che si guardava i derby da infarto su una sedia a bordo campo. Ma quelle partite leggiadramente fantozziane coronavano ancor più di prima l’impegno del prete. Incontri, assemblee, ospiti che in televisione non si vedevano, temi di cui in televisione si parlava poco e male. Perché “la prova della nostra fede sta nella carità, sta nell’impegno”. E perché, come ha detto l’altro pomeriggio durante la messa, “se noi cristiani non facciamo la differenza, in politica come in tutto il resto, allora non siamo veri discepoli di Gesù”.
Cristiani. Usa proprio questa parola, il missionario. E lo spiega: “Essere cristiani è una conquista, essere cattolici è un’eredità del posto in cui sei nato, della tua famiglia di origine. Cristiani vuol dire viaggio, cattolici fissità”. Gli occhi buoni e arguti lampeggiano sotto una montatura sottile. La maglietta viola, i pantaloni verde marcio, i sandali, perché ha un bel repertorio di sandali il don Giuliano: “anche i vescovi in Brasile vestono così, sa? E se qualcuno li chiama eminenza o monsignore si mettono a ridere”.
Il Fatto Quotidiano
Il Brasile, appunto. Dopo Sariano arrivò Pezzoli, sempre in provincia di Rovigo, finché nel 2005 prese la grande decisione: missionario in Brasile, perché cristiani vuol dire viaggio, movimento. “Come dice Pessoa, arriva un momento della vita in cui bisogna lasciare i vecchi abiti che hanno preso la forma del nostro corpo. E indossare nuovi abiti”. A Condeube Bahia si occupa dei poveri, di progetti educativi, di cultura. Raffiche di foto lo ritraggono circondato da bambini di tutti i colori. E ammette che se anche prova la saudade all’incontrario, ogni tanto viene anche a lui quella vera. “L’ultima volta ho anticipato il rientro alla missione di una settimana. Mi aveva preso la nostalgia”. Sarà, al suo interlocutore sembra solo ammaliato dai campanili e dagli accenti rodigini. Dall’altare annuncia “non ho preparato un gran discorso”. E invece ne infila uno magistrale, carico di pathos, rompendo più volte la voce nel ricordare i suoi maestri: padre Balducci, padre Turoldo, Dossetti, monsignor Bettazzi, don Ciotti. Ma anche il laicissimo Giovanni Ferrara, intellettuale moralista, che quando veniva in visita diceva che con lui gli capitava di sentirsi un po’ cattolico. Ricorda quando venne a San Martino la prima volta, da aiuto parroco. Quarant’anni (di sacerdozio) fa. Perché questo speciale compleanno ha festeggiato davanti ai suoi fedeli. Che mentre lo applaudivano ti dicevano in confidenza: “da anni faccio i chilometri per trovare qualcuno che dica la messa come lui; ma ancora non l’ho trovato”.
Nando
Next ArticleCommissione antimafia a Milano/3. Tu chiamale, se puoi, obiezioni