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La vendetta dell’etica. Rileggere la crisi (il Fatto Quotidiano, 27.10.11)
Forse fatichiamo a capirlo. Ma quel che sta accadendo è una grandiosa
vendetta dell’etica sui suoi nemici. E’ la sua rivincita su chi l’aveva
dileggiata in nome delle superiori ragioni dell’economia, della politica, del
potere. Cacciata con superbia, ci ricade addosso travolgendoci. Il baratro economico
è l’effetto di un collasso della fiducia. Ma la fiducia è una misura sintetica
ed efficacissima di uno stato di salute e di una reputazione che, nel caso
italiano, fanno drasticamente i conti con i fondamenti dell’etica pubblica. Basta
dare storia e radici all’indebitamento contro il quale annaspiamo ormai
impotenti. Non è forse, da sempre e ovunque, una primaria questione di etica
pubblica l’atteggiamento dei cittadini verso il dovere di pagare le tasse? E
non è nel nostro caso l’evasione fiscale un indicatore diretto, solare, della
cultura civica praticata, vezzeggiata, giustificata anche dall’alto in nome di
un consenso drogato e anarcoide? Altrettanto è una fondamentale questione
etico- istituzionale quella del senso di responsabilità e del rigore con cui si
amministrano i soldi pubblici. Valori irrisi. Eppure paghiamo oggi esattamente
il saccheggio degli anni di Tangentopoli. I cui protagonisti, con le loro
ruberie, fecero schizzare verso vette mai raggiunte (e a quanto pare
irreversibili) i livelli del debito. Oggi, trent’anni dopo, quelle scelte
sciagurate che ai protagonisti consentirono vite principesche ricadono su chi
allora non era ancora nato. Sappiano i nostri figli chi ringraziare, con buona
pace dei nostalgici della Prima Repubblica.
Ma ha molto a che fare con l’etica anche la dissipazione
delle ricchezze realizzata dalla Seconda Repubblica. Si pensi solo alla somma
mostruosa (più di sessanta miliardi) sottratta ogni anno alla collettività
dalla corruzione, perseguita con leggi sempre più blande e anzi sdoganata con
diffusi meccanismi di deresponsabilizzazione, come la trasformazione in una
galassia di soggetti “di diritto privato” del sistema dell’economia pubblica.
Le grandezze economiche che ci inchiodano e ci rendono inquieti sul nostro
futuro sono insomma figlie legittime di una preciso sistema di regole morali. Di
un modo di intendere compiti, ruoli e doveri quando si operi nelle e al
servizio delle istituzioni. Di una specifica qualità della solidarietà sociale.
Di un senso dello Stato infermo. E anche della distruzione del circolo virtuoso
delle democrazie, quello che stringe insieme consenso, potere e
responsabilità. Figlie della convivenza
di un potere senza responsabilità (il capo del governo), di un potere senza
consenso (i Lavitola ministri degli esteri o i Bisignani vicepresidenti del
Consiglio), di un consenso senza potere (gli organi elettivi, al di là delle
leggi elettorali).
Abbiamo anche scoperto che l’etica privata ha una autonomia
del tutto relativa. Che i comportamenti privati di chi ha funzioni
istituzionali tracimano a un certo punto, e necessariamente, nella sfera dei
comportamenti degni di pubblico giudizio (altro che buco della serratura…). E concorrono
a generare o distruggere fiducia. O pensiamo forse che i risolini imbarazzati
di Sarkozy e della Merkel non esprimano una “sfiducia” che in loro, come in
tutta l’opinione pubblica internazionale, si è sedimentata anche in virtù di un
giudizio (radicale) su conclamati comportamenti “privati”? L’etica, purtroppo,
restituisce i torti subiti con gli interessi, non risparmiando nemmeno la Costituzione.
Quando il cancelliere tedesco telefona al presidente della Repubblica per avere
ragguagli e certezze sulla manovra economica del governo, di fatto è stata
cambiata la geografia costituzionale dei poteri, che ci piaccia o no.
Insomma, la cenerentola dei congressi politici, l’ospite a
stento tollerato nel Palazzo, sta trionfando. Avevano pensato di mandarlo in
esilio, ma non ci sono riusciti. Perché l’etica si può umanamente trasgredire.
Ma non la si può calpestare (Tangentopoli) e tanto meno rovesciare (Seconda
Repubblica). Ci avevano detto che la legalità era bella ma impediva lo
sviluppo. Ora impariamo che l’illegalità ci ha portato a un passo dall’abisso.
Nando
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